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#arseniclife

CRONACA – Prima un breve ripasso. All’inizio di questo inverno progressivamente la stampa era entrata in fibrillazione. Si diceva che la NASA stesse per dare un annuncio di importanza epocale. Forse gli alieni? La NASA non conferma, ma nemmeno smentisce le indiscrezioni più o meno fantasiose, rimandando il tutto a una conferenza stampa. Il 2 dicembre 2010 Felisa-Wolfe Simon, microbiologa, annuncia di avere in mano i dati, pubblicati on-line il giorno stesso su Science, che dimostrerebbero la capacità di un batterio di usare l’arsenico al posto del fosforo nei suoi processi biochimici, in particolare nella costruzione degli acidi nucleici (DNA e RNA).

Quella che prima era solo una speculazione, cioè che la vita possa reggersi anche su elementi diversi da quelli a cui siamo abituati, sembrava diventata realtà. In ogni caso niente alieni, anche se la scoperta avrebbe avuto sicuramente ripercussioni in campo astrobiologico (non per niente la NASA ha finanziato lo studio), poiché l’adattamento del batterio estremofilo in questione (il lago Mono, dal quale proviene, è infatti un lago salato) fa se non altro ben sperare: dal nostro punto di vista, fuori dal pianeta Terra, ogni ambiente è “estremo”, e se la biochimica può essere così “flessibile” le nostre sonde potrebbero presto compiere la scoperta del secolo. Un microorganismo trovato, per esempio, su Marte cambierebbe per sempre il nostro modo di vedere la Natura.

C’è la NASA e c’è Science, l’entusiasmo contagia tutti e tutte le testate (compresa Oggi Scienza, qui) si danno da fare per riportare la notizia con tutto il risalto che le si deve. Ma l’epifania dura poco. I microbiologi leggono lo studio e la conclusione è praticamente unanime: così come si presenta è inconcludente, fallato da gravi errori metodologi che hanno traviato l’interpretazione. Da una parte gli autori affermano di aver fatto crescere i batteri a una concentrazione di fosforo improponibile per la vita, ma non è corretto poiché gli estremofili (come appunto questi rappresentanti della famiglia Halomonadaceae) possono moltiplicarsi anche a bassissime concentrazioni dell’elemento, dall’altra, per verificare che effettivamente questi batteri avessero usato arsenico per sopperire alla mancanza di fosforo, hanno utilizzato un protocollo che non permette di escludere contaminazioni.

La stampa deve fare dietro front e Oggi Scienza pubblica prima una smentita e poi un editoriale che imposta un’analisi di quanto è accaduto dal punto di vista comunicativo, con la NASA che diffonde un teaser e i blogger che fanno la peer-review ad articolo pubblicato. Storia finita quindi? Tutt’altro, era appena cominciata, perché il giorno della conferenza stampa il mondo conobbe effettivamente una nuova “forma di vita”, ovvero #arseniclife, l’hashtag che immediatamente si è evoluto su twitter e che da allora contrassegna ogni aggiornamento sul batterio del lago Mono. Con un po’ di pazienza potete usare i cinguettii del social network per ricostruire la storia e continuare a tenervi aggiornati. Infatti Felisa Wolfe-Simon e colleghi non hanno mai ritrattato, rispondendo punto per punto alle critiche sulle pagine di Science.

Tra una frecciata e l’altra (per dirne una, la linea di batteri usata da Felisa Wolfe-Simon, GFAJ-1, per i detrattori è diventato l’acronimo di Give Felisa a Job, date a Felisa un lavoro…) Rosie Redfield (vedi vignetta), fin dall’inizio in prima linea (è stata la prima a pubblicare sul proprio blog un’analisi approfondita del paper) si è messa al lavoro e ha deciso di replicare l’esperimento, e di usare il proprio blog come diario di ricerca.

Il blog RRResearch (del network Field of Science) è già usato a questo scopo, intervallando post divulgativi e specialistici, ma da quando il 21 giugno i GFAJ-1 sono arrivati al laboratorio  senz’altro i visitatori sono aumentati. E se la tanto bistrattata Felisa Wolfe-Simon, che intanto si è guadagnata un posto nella storica classifica di TIME, avesse ragione? Cliccando sull’apposito tag scelto per i post (ovviamente #arseniclife) sembra proprio di no, ma Rosie Redfield continua comunque con i test.

Ma è sufficiente un blog per confutare (o confermare) uno studio? No, e ci si aspetta pertanto che la Redfield pubblichi i suoi dati, ma è interessante vedere come in tanti stiano aiutando la Redfield tramite twitter e commenti diretti sotto ai post. La Redfield fa uso di questi suggerimenti dati in tempo reale per correggere errori e modificare il protocollo in modo da ridurre al minimo le false interpretazioni. Come fa notare un lettore a Carl Zimmer, tra i primi a dare risalto all’iniziativa della popolare microbiologa, nel 2009 era accaduto qualcosa di simile, con un paper di chimica demolito addirittura in live-blogging sul blog personale del giovane chimico Paul Docherty. Da segnalare anche in questo caso l’aspetto 2.0 (se ancora ha senso questa definizione): in mancanza del tam tam mediatico made in NASA, l’attenzione del chimico è stata cattura da un colorito commento off-topic in un precedente post.

Quando c’è di mezzo Internet è fin troppo facile cedere all’aggettivo “rivoluzionario”, ma almeno per quanto riguarda la ricerca (per la comunicazione al pubblico è un altro paio di maniche) questa soluzione open source potrebbe, quanto meno, essere un’interessante innovazione. Lo stesso discorso vale in generale per la cosiddetta open science, ma come ha fatto notare Michael Nielsen alla conferenza Science on line London 2011 (noi c’eravamo n.d.r) non è scontato che la soluzione migliore per tutti sia adottata dai componenti del gruppo, in questo caso gli scienziati, automaticamente. Nè avrebbe senso un’imposizione dall’alto, che obbligasse i ricercatori, di punto in bianco, a diventare provetti internauti disposti a esporre preziosi dati frutto di duro lavoro ai lubrichi occhi dei colleghi. A questo proposito l’efficace esempio di Nielsen è stato il cambio di corsia di marcia imposto, dopo un referendum negativo, dal governo svedese nel 1967. Era l’unica soluzione razionale per adeguarsi ai paesi confinanti.

Alle ore 4.50  tutte le automobili avrebbero dovuto cominciare a circolare dal lato destro invece che dal lato sinistro. Nella foto il risultato.

A detta di molti un cambio di paradigma è necessario, ma la massa critica del consenso è ancora da raggiungere. Sarà da vedere se Rosie Redfield sara considerata un giorno come una pioniera o come la classica persona vissuta nel secolo sbagliato.

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Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, mi sono formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrivo abitualmente sull’Aula di Scienze Zanichelli, Wired.it, OggiScienza e collaboro con Pikaia, il portale italiano dell’evoluzione. Ho scritto col pilota di rover marziani Paolo Bellutta il libro di divulgazione "Autisti marziani" (Zanichelli, 2014). Su twitter sono @Radioprozac