CRONACA

La cura di Salvatore

CRONACA – Salvatore ha un cancro e di lui si è parlato moltissimo in questi giorni. Perché Salvatore – Iaconesi di cognome: ingegnere, artista, esperto di tecnologie, innovazione e open source – ha deciso di affrontare la sua malattia in modo nuovo e dirompente. Per prima cosa ha lavorato per convertire i file dei suoi esami diagnostici (TAC e risonanza magnetica) in un formato più maneggevole del DICOM, quello con cui di solito vengono archiviate le immagini mediche. Che tecnicamente è aperto, ma di fatto è tale da rendere molto difficile a un paziente che si trovi in mano un CD con le sue brave immagini DICOM, di visualizzarle sul proprio computer o condividerle con altri. Dunque Iaconesi ha hackerato i suoi file e poi li ha caricati su un sito con un invito chiaro ed esplicito: datemi una cura. Una terapia per il corpo, per la malattia, certo, ma non solo. Anche una cura per lo spirito o per la comunicazione: un video, un’opera d’arte, una mappa, un testo, una poesia, un gioco. Un gesto semplice, ma con implicazioni potentissime

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Una prima implicazione ce la ricorda l’oncologo Umberto Veronesi, che in una lettera su Repubblica ringrazia Iaconesi per un gesto che è anche una lotta ai tabù che circondano il cancro. «Ancora non è scomparsa dalla nostra cultura l’idea che il cancro sia una maledizione, una iattura, una punizione divina o uno spettro che si potrebbe materializzare al solo pronunciare il suo nome» ricorda il professore. Al punto che ancora oggi molti non riescono a chiamare la malattia per nome. Iaconesi invece lo fa, mettendola sullo stesso piano di altre gravi malattie: «Un’azione importante contro le sue rappresentazioni» dice Veronesi. E dunque un’azione importante per tutti.

Ancora più forte è l’attenzione che l’appello di Iaconesi porta sui dati aperti. Se ne parla in genere con riferimento ai dati di interesse pubblico (come quelli di amministrazioni locali o di ospedali) ma qui in ballo ci sono i dati sanitari di ciascuno di noi. Che ci vengono sempre forniti – e ci mancherebbe altro, anche se a volte sembra più una concessione – ma in molti casi sono complicati da maneggiare, che si tratti di file DICOM o dei vecchi esiti redatti in una grafia illeggibile ai comuni mortali. Iaconesi rivendica il diritto a un accesso davvero pieno e reale alle proprie informazioni mediche. Naturalmente non è un punto d’arrivo, ma di partenza, perché poi bisogna sapere che cosa farsene, di quelle informazioni: come leggerle, come usarle, con chi condividerle. L’artista ha scelto di rivolgersi alla rete, il che spinge ancora una volta a riflettere proprio sul rapporto che da pazienti – qualunque siano la nostra condizione e la sua gravità – tendiamo ad avere con Internet.

Ovviamente non si tratta di una novità: la ricerca su Internet in caso di malattia è ormai una costante dei nostri tempi. «La prima cosa che si fa quando compare un sintomo, è digitarlo su Google per cercare informazioni e capire che cosa potrebbe essere» dice Maria Giovanna Ruberto, bioeticista dell’Università di Pavia da tempo interessata al fenomeno dell’e-health e autrice del volume La medicina al tempo del web. Ricevuta una diagnosi o, ancora prima, ricevuti gli esiti di qualche esame specialistico, l’atteggiamento comune è cercare in rete un medico a cui chiedere una consulenza. In effetti, i siti che propongono questo servizio (pensiamo a medicitalia.it) vanno fortissimo: «È il vecchio meccanismo della ricerca di una seconda, terza, quarta opinione, con altri strumenti» precisa l’esperta.

Infine, c’è la ricerca di una relazione con i pari, cioè con altri pazienti: pensiamo ai siti delle associazioni, ai tantissimi forum e a esperienze come quella di patientslikeme, una piattaforma di condivisione di informazioni sanitarie creata nel 2004 dai fratelli e da un amico di un ragazzo con sclerosi laterale amiotrofica per cercare suggerimenti su come migliorargli la vita. «Il gruppo è sempre una grande risorsa e a maggior ragione in una condizione di fragilità e incertezza quale è la malattia» afferma lo psicologo clinico Egidio Moja, direttore di Cura, centro di ricerca sugli aspetti comunicativo-relazionali in medicina dell’Università di Milano. «Perché quali che siano i nostri guai, quando ci mettiamo insieme ad altri è possibile che escano considerazioni che potrebbero essere d’aiuto o almeno di conforto».

Bene, nel suo progetto Iaconesi mette insieme tutte queste azioni: chiede informazioni, consulenze, condivisione, sostegno; invita alla costruzione di una comunità di tecnici, medici, artisti, filosofi impegnati a dare nuove definizioni del concetto di cura. Prende la sua malattia per intero e la offre al mondo, con un atteggiamento che è un’esemplificazione estrema di quanto sia cambiato nel tempo il rapporto tra medico e paziente, all’insegna del valore dell’autonomia. «Perché Iaconesi avrà di sicuro un suo medico o suo centro di riferimento, ma questi non potranno prescindere dalla personale interpretazione di malattia che nel frattempo lui si è costruito attraverso il suo percorso» commenta Moja.

L’operazione di chiedere aiuto a un gruppo globale, fare ricorso all’intelligenza diffusa della rete, però, non è priva di aspetti critici. «C’è il rischio», ricorda Veronesi, «che al suo appello rispondano guaritori improvvisati che sono assidui frequentatori di Internet». Un rischio che si è già concretizzato. Al momento, tra le “cure” proposte la grande maggioranza è occupata da soluzioni ben lontane dai metodi terapeutici riconosciuti come validi nella lotta contro il cancro: soluzioni non convenzionali e prive di qualunque fondamento scientifico. Tra i consigli su funghi, erbe amazzoniche, laetrile, bicarbonato, meditazione o dieta e le indicazioni di vari santoni e guaritori, una domanda sorge spontanea: è davvero utile tutto ciò a una persona malata di cancro?

Del resto, lo stesso problema si pone per ogni malato che a un certo punto si metta a cercare in rete informazioni sulla sua malattia: è molto facile che incappi in questo genere di informazioni, spesso di tono miracolostico. «È una situazione pericolosa, ma ormai inevitabile. Per questo bisogna lavorare per fornire ai pazienti strumenti e indicazioni per cercare nei posti giusti» afferma Ruberto. E bisogna naturalmente intervenire sul rapporto medico-paziente. Molti camici bianchi si indispettiscono se il paziente arriva con qualche proposta ricavata dalle sue ricerche, o la liquidano frettolosamente. «Ma non serve a niente» precisa Moja. «Il medico deve invece ascoltare le informazioni raccolte dal paziente, i suoi dubbi, le sue certezze, insomma l’idea che si è fatto della sua malattia e poi discuterne con lui. È un passaggio fondamentale per costruire un rapporto di fiducia». Eppure molti medici non sono ancora pronti a questo tipo di comunicazione e così Iaconesi con il suo progetto fa anche questo: tocca un nervo scoperto della medicina attuale. C’è davvero molto su cui lavorare. Intanto, a Salvatore facciamo un enorme in bocca al lupo.

Immagine: http://artisopensource.net/cure/

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance