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Giornalisti o cheerleader (parte due)? Intervista a Fabio Turone

Fabio Turone
Fabio Turone

La prima parte di quest’articolo, con un’intervista a Marco Cattaneo, è anch’essa disponibile su OggiScienza.

JEKYLL – Continuiamo a cercare di capire cos’è, oggi, l’indipendenza per un giornalista scientifico. In questa seconda intervista abbiamo parlato con Fabio Turone, presidente di SWIM (Science Writers in Italy) e membro del board della EUSJA (European Union of Science Journalists’ Association).

Secondo Marco Cattaneo i giornalisti scientifici sono poco indipendenti quasi per principio, perché costretti a inseguire la crescente specializzazione degli scienziati e quindi a fidarsi di loro. Turone, ma allora il pubblico deve rassegnarsi a essere informato in modo parziale?

L’osservazione di Cattaneo è senz’altro giustificata, purtroppo. E infatti da qualche anno a questa parte mi pongo il problema di cercare delle soluzioni. Per discutere di un argomento, infatti, non serve solo conoscere la disciplina di cui si scrive, ma anche un’ampia gamma di competenze giornalistiche come il saper mettere in luce gli argomenti più critici, che magari sfuggono agli stessi autori delle ricerche..

Per esempio?

Nel giornalismo medico c’è però una fortissima influenza degli interessi commerciali. Per cui avere competenze mediche, di per sé, non è detto che migliori la qualità dell’informazione. E questo perché uno dei ruoli più importanti è proprio dire: “In questo studio ci sono tante conclusioni. Ma ci sono elementi fuori dal quadro scientifico che ne influenzano il risultato finale?” È un atteggiamento, una predisposizione mentale propria del giornalista.

Quindi non dobbiamo sorprenderci se i giornalisti sono poco credibili? È un problema strutturale della professione?

Certo, e non soltanto per il giornalismo scientifico, ma per la stessa scienza. Ancora nel campo della ricerca medica, i conflitti di interesse sono una questione essenziale. Per anni sono stati pubblicati studi, poniamo, sul Journal of American Medical Association, che due settimane dopo venivano smentiti da altri pubblicati sul New England Journal of Medicine.

E i giornalisti scientifici dov’erano, in tutto questo?

Il giornalismo scientifico è diviso in due tronconi: c’è chi si interroga, prova, si confronta con il mondo scientifico e cerca di capire quali elementi portare al pubblico. E c’è chi non è interessato a queste cose e fa il proprio mestiere senza interrogarsi sulla natura di quello stesso mestiere. In questo senso, come promotore di un’associazione italiana di giornalisti scientifici, il mio lavoro è cercare professionisti che hanno sia competenza che consapevolezza.

Come le sembra che abbia reagito la comunità dei giornalisti scientifici alla sentenza di condanna della Commissione Grandi Rischi?

La sentenza ha molto polarizzato il campo fra innocentisti e colpevolisti. C’è stato un atteggiamento critico verso entrambe la posizioni: da un lato verso una sentenza che non sembrava distinguere le responsabilità, dall’altro la critica a un mondo che non ha neppure pensato di fare autocritica. La mia impressione è che una parte significativa dei giornalisti abbia attribuito al giudice un sentimento che condivide: e cioè che i membri della commissione hanno lasciato fare a loro nome un’operazione mediatica. Non tanto aver nascosto la verità, quanto non aver chiarito a sufficienza i margini di incertezza.

Eppure c’è stato addirittura chi ha proposto una petizione in favore degli imputati.

Che io sappia la comunità scientifica ha fatto firmare, a processo già in corso, una lettera internazionale che confermava il fatto che i terremoti non si possono prevedere.

In realtà mi riferivo a un appello da parte dei giornalisti scientifici italiani.

Di quel tipo di pulsioni ce n’è in continuazione. C’è sempre qualcuno che ha un’idea poco riflettuta. In quel senso neppure la ricordo, perché non ho mai pensato che sarebbe andata in porto. Più che agli appelli io credo si debba lavorare agli esempi concreti. Esempi di buona informazione, strumenti, forme di collaborazione. Anche fra persone in concorrenza fra loro, che però insieme possono alzare il livello del lavoro di tutti. In questo senso gli appelli non fanno parte degli strumenti che reputo importanti o efficaci. Mi capita di sottoscriverne, a volte, ma non credo che un giornalista debba fare testimonianza. Può cercare di fare il suo mestiere nel migliore dei modi, e indicare semmai ai colleghi quali sono le produzioni di qualità.

C’è poi un altro problema dei giornalisti, che è la sovrapposizione di ruoli.

Certo. Prendiamo il giornalista che fa l’ufficio stampa di un ente di ricerca: non scriverà mai una cosa totalmente neutrale rispetto a quell’ente. E infatti nessuno sentirebbe il capoufficio stampa di Bersani per trovare una critica o un resoconto oggettivo della sua campagna elettorale. D’altra parte se uno parla di Bersani senza averlo mai incontrato, chissà cosa scrive.

Ma queste sovrapposizioni non li rendono meno credibili? Per esempio, visto che siamo in campagna elettorale, di giornalisti candidati ne abbiamo visti tanti.

Questo però succede per tutte le professioni – come dire – liberali: avvocati, giudici e così via.

Non è più importante nel caso dei giornalisti?

Però in qualche modo è ineliminabile. Un collega può dimettersi, formalmente, e comunque restare immerso in un conflitto di interessi colossale. Il mio timore è puntare il dito e aprire a chi dice “Così fan tutti”. È una logica da cui vorrei uscire. I giornalisti scientifici fanno tante cose diverse, e vorrei aiutarli a capire chi lavora con premesse di un certo tipo e chi invece – sotto sotto – continua a farsi gli affari propri, magari anche in malafede. Offrire la ricetta semplice secondo cui, per ipotesi, il giornalista non può entrare in politica significa solo permettere, a chi lo vuole fare, di dimettersi e poi comunque influenzare l’ambiente. Scrivendo magari da politico e non da giornalista.

E allora che si fa?

All’inizio si diceva: “Bisogna dichiarare sulle riviste il conflitto di interesse”. Oggi invece c’è una cosa un po’ più modulata, per cui sei invitato a dichiarare tutti gli interessi potenzialmente in conflitto. Siamo passati da una visione in bianco e nero a una in toni di grigio, così incentiviamo la gente a tirar fuori cose di cui altrimenti non avrebbe parlato. Almeno è un passo avanti.

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