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Sindrome di Rett: dove saremmo senza la sperimentazione animale

Nicoletta Landsberger: “Se oggi cerchiamo una cura è grazie ai modelli murini”

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CRONACA – Le mozioni sulla regolamentazione della sperimentazione animale stanno scaldando giustamente gli animi. Da una parte c’è chi augura “felici metodi alternativi a tutti” e dall’altra chi afferma che queste decisioni “comprometteranno il futuro della ricerca biomedica italiana”. Pare che uno dei pomi della discordia sia il fatto che la ricerca medica scelga di utilizzare modelli animali quando in realtà vi sono dei metodi alternativi, gli stessi che la scienza chiama “metodi complementari”.

Quale che sia la posizione di ognuno di noi in merito, è bene evidenziare che vi sono dei casi in cui fare ricerca senza l’ausilio dei modelli animali è impensabile. Una di queste è la sindrome di Rett, una malattia neurodegenerativa rara e molto grave che colpisce principalmente le bambine. Al momento non esiste una cura per la sindrome di Rett, ma in tutto il mondo non si smette di fare ricerca per mettere a punto una cura. Perché? Perché nel 2007, grazie ad alcuni esperimenti eseguiti sui topi, i ricercatori hanno scoperto che la malattia si può curare. A raccontare questa storia è Nicoletta Landsberger, professore associato in biologia molecolare all’Università di Milano dove studia proprio i meccanismi patologici alla base della sindrome di Rett.

Che cos’è la sindrome di Rett

Dopo la sindrome di Down, la malattia di Rett è la prima causa al mondo di grave disabilità intellettuale nelle bambine. È una patologia neurologica relativamente rara, che colpisce circa 1 su 15 000 bambine nate vive, ma estremamente feroce, crudele e attualmente senza una cura. È inoltre una malattia imprevedibile, dal momento che non è necessario aver avuto casi di Rett in famiglia per rischiare di concepire un figlio malato. Qualsiasi persona, in qualsiasi parte del mondo, ha la stessa probabilità di avere una figlia malata di Rett. “Diagnosticare la malattia è possibile, e basterebbe sequenziare il solo gene MeCP2, ma essendoci oltre 6000 malattie rare dovremmo fare lo stesso per l’intero genoma. Inoltre le malattie rare non si sequenziano se non vi sono precedenti in famiglia”.

La bambina nasce apparentemente sana, cresce come le altre bambine, si muove come le altre bambine. Ma la normalità dura poco, perché intorno all’anno di età comincia la fase di regressione, che si manifesta dapprima con irascibilità, nervosismo e movimenti stereotipati delle mani, per poi compromettere in maniera definitiva l’intero sviluppo intellettivo e motorio. Con il tempo subentrano problemi di respirazione, soprattutto durante il giorno, dovuti alla compromissione dei movimenti volontari, epilessia, forte scoliosi e osteoporosi.

Sappiamo che si potrà guarire

“Per noi la sperimentazione animale è stata ed è fondamentale, un sine qua non, per la comprensione della malattia. Di sindrome di Rett non si guarisce al momento, ma oggi sappiamo che si può guarire e possediamo questa certezza proprio grazie ai modelli animali.” spiega la Landsberger. “Fino al 2007 il dubbio degli scienziati riguardava la possibilità che la sindrome di Rett avesse in realtà una natura neurodegenerativa, come l’Alzheimer. Nel 2007 abbiamo invece capito che non è così. Sono stati creati appositamente topi con il gene mutato cui è stato somministrato un certo farmaco con lo scopo di osservare se in una finestra temporale il topo guariva. Ebbene, i topi sono guariti. Ora, è evidente che un essere umano è un organismo molto più complesso di un topo, così come è evidente il fatto che la possibilità di guarire non significa che le bambine andranno ad Harvard – precisa la Landsberger – ma questo risultato ha rappresentato per noi la conferma che è giusto continuare gli studi alla ricerca di una cura che riteniamo possibile. Senza l’opportunità di utilizzare i topi come modello ci staremmo ancora chiedendo se la Rett assomigli in qualche modo all’Alzheimer”.

Cosa accade ai tessuti

Un secondo passaggio in cui la sperimentazione animale si è rivelata molto importante è l’analisi dei tessuti cerebrali dei malati. “Qui è necessario sottolineare l’ovvio – prosegue la Landsberger – e cioè che per studiare una malattia neuronale è fondamentale analizzare che cosa accade a livello dei tessuti cerebrali del malato, cosa che evidentemente non è possibile fare su di un paziente umano vivo”.

Quello che possiamo fare, spiega la ricercatrice, è invece prendere i tessuti degli animali e studiarli, e questo ha permesso alla ricerca scientifica di progredire molto velocemente. “Inoltre la possibilità di avere questi tessuti ci consente anche di valutare i benefici di nuovi approcci terapeutici che vengono volta per volta proposti come sperimentali”.

Avere i neuroni non significa ancora avere un cervello

Una delle principali obiezioni che si adducono contro la sperimentazione animale è che si potrebbero fare le stesse cose, o quasi, in vitro. “Questo è vero in diversi casi, ma per noi che ci occupiamo di una malattia del cervello la differenza è enorme”, spiega ancora la Landsberger. “Le cellule coltivate in vitro possono produrre neuroni, ma non possiamo limitarci a quello. Studiare i neuroni non significa studiare il cervello”.

Qual è la situazione al momento?

Dopo il 2007 la ricerca sulla sindrome di Rett è cresciuta moltissimo, sia al livello di ricerca di base sia in ambito farmacologico. “Non tutti i gruppi di ricerca prevedono l’utilizzo di modelli animali, ma è fondamentale che vi possiamo ricorrere quando ne abbiamo bisogno” conclude la Landsberger. “Ci sono malattie come la sindrome di Rett, ma non solo, dove la ricerca è oggi impensabile senza la sperimentazione animale, e questo sia dal punto di vista dei risultati raggiunti sia delle tempistiche: le bambine con la sindrome di Rett hanno molta, molta fretta che si trovi una soluzione al loro problema. E non dimentichiamo che chiunque di noi può generare un figlio malato.”

Inoltre, lo stesso gene che mutato dà origine alla sindrome di Rett può condurre all’insorgenza di altre patologie rare, che però considerate nel loro insieme colpiscono 1 nato vivo su 4000. “Oggi, a quasi 30 anni dalla sua definitiva descrizione, iniziamo a dipingere lo scenario entro cui si muove la sindrome di Rett e a disegnare approcci sperimentali terapeutici logicamente sviluppati, ma senza la sperimentazione animale saremmo anni luce indietro rispetto a questo punto.”

@CristinaDaRold

Leggi anche: Alternative alla sperimentazione animale, a che punto siamo

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Amanda Bowman, Flickr

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.
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