Come siamo riusciti a raggiungere lo storico Accordo sul Clima
Dopo giorni di estenuanti trattative diplomatiche è stato raggiunto a Parigi un Accordo sul Clima. Anche grazie ad un antico metodo africano.
ATTUALITÀ – “Nessuno di noi agendo da solo può raggiungere il successo, il successo è portato da tutte le nostre mani riunite.” Con queste enfatiche parole di Nelson Mandela, Laurent Fabius, Ministro degli Esteri francese e presidente di COP 21, chiudeva in lacrime la Conferenza di Parigi sul Clima, annunciando al mondo che un Accordo sul Clima storico ma al tempo stesso realistico era stato raggiunto dopo giorni di lavoro intenso e momenti in cui il rischio di un fallimento appariva concreto.
I tre punti principali dell’Accordo di Parigi
L’Accordo di Parigi è sotto ogni punto di vista un accordo storico, abbastanza concreto e con obiettivi raggiungibili anche se difficili. L’efficacia dell’accordo si può capire dalla (relativa) semplicità del suo contenuto. Sono tre, infatti, i punti chiave. Il primo, più conosciuto, è la riduzione dell’emissione di sostanze che alterano il clima in modo da contenere il riscaldamento climatico in un range compreso tra i +2°C e +1,5°C. Tale obiettivo è stato il vero successo della Conferenza, dal momento che i documenti preparatori proposti dai singoli Paesi indicavano una riduzione delle emissioni insufficienti (si calcolava che prese per buone avrebbero comportato un aumento di +4°C). Inoltre, fatto non da poco, si chiede ai firmatari di raggiungere il picco di emissioni “il prima possibile”, per poi iniziare la riduzione.
Il secondo punto è il rapporto tra “diritto alla crescita” e “diritto a inquinare”. Era l’aspetto più politico, che vedeva a confronto da una parte i Paesi in via di sviluppo (PVS), che reclamavano sia il diritto a inquinare sia gli investimenti finanziari dei Paesi sviluppati per iniziare a inquinare meno, e dall’altra i Paesi già sviluppati che invece cercavano di imporre una crescita green anche ai PVS. L’Accordo di Parigi prevede un meccanismo di incentivo finanziario di 100 miliardi di dollari statunitensi da ora fino al 2020, per preparare un sistema più efficace che entri in funzione dal 2025. Questi fondi dovrebbero aiutare i Paesi in via di sviluppo ad adottare modelli di sviluppo meno inquinanti.
Infine, il terzo punto, quello più tecnico. La questione centrale era se il rispetto dell’accordo dovesse essere vincolante o meno. Alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti, tradizionalmente non sottoscrivono accordi vincolanti. Tuttavia, altre nazioni (o gruppi di nazioni, come l’Unione Europea) ritenevano fondamentale, data la materia dell’accordo, che fosse vincolante, ovvero che prevedesse un meccanismo di controllo e di sanzione in caso un firmatario non rispettasse l’impegno. La soluzione trovata è stata quella di prevedere un meccanismo di controllo del rispetto dell’Accordo, ma (al momento) non di sanzione.
I gruppi di pressione
Come siamo arrivati a un accordo al tempo stesso realistico e ambizioso? Il percorso è stato tutt’altro che semplice, frutto di un negoziato lungo (13 giorni) e molto faticoso (al punto che, negli ultimi giorni, i delegati si davano il turno per poter dormire almeno 4 ore al giorno). L’inizio era stato tutt’altro che promettente. Narendra Modi, il premier nazionalista indiano, aveva aperto le dichiarazioni ufficiali con un discorso ben poco incoraggiante, nel tentativo di fare dell’India la capofila dei Paesi in via di sviluppo che chiedevano fondi ma non garantivano il rispetto della riduzione delle emissioni. L’azione indiana, ispirata ad un terzomondismo un po’ antiquato, aveva avuto il solo effetto di irrigidire i Paesi partecipanti, facendoli coagulare attorno a gruppi ideologici rigidi. In sostanza, le 195 nazioni che hanno partecipato alla conferenza si erano schierati secondo 4 tipi di gruppi.
I Paesi in via di sviluppo, capitanati dall’India, proponevano un approccio da loro chiamato climate justice, giustizia climatica; temevano che un accordo vincolante minasse il loro sviluppo economico – interamente basato sulle energie da fonti fossili – e perciò chiedevano fondi per aderire all’accordo. I Paesi più ricchi, con a capo Unione Europea e Stati Uniti, ritenevano invece una priorità assoluta la riduzione delle emissioni. Avevano dichiarato di considerare un fallimento, che non avrebbero firmato, un accordo che non avesse come obiettivo una riduzione delle emissioni di +1,5°C.
I Paesi estrattori di petrolio, guidati da Arabia Saudita e Russia, si opponevano a qualsiasi forma di compromesso che avrebbe ridotto l’utilizzo di fonti fossili. Infine i Paesi insulari – Caraibi e isole del Pacifico in testa – già soffrendo grandemente degli effetti del cambiamento climatico, volevano un accordo forte, chiaro e immediatamente attuabile (ma avevano pochissimo peso politico). Più i giorni passavano, più i gruppi si irrigidivano sulle proprie posizioni, e il raggiungimento di un accordo concreto e fattivo sembrava allontanarsi.
Il metodo africano
Sul fallimento della conferenza, che si era concretamente materializzato mercoledì scorso, pesava anche un discorso metodologico. Normalmente queste conferenze globali si svolgono in due momenti: gli accordi vengono presi in singoli incontri “privati”, in cui si abbandona il tono diplomatico per dar vita a un linguaggio più diretto e informale (che ogni tanto sfocia in vere e proprie minacce). Le decisioni prese in questo giro di colloqui privati sono poi “ratificate” in sessione plenaria (ovvero quando tutti i delegati si mettono a discutere insieme: sono i momenti che vediamo spesso in foto). Questa metodologia alcune volte è efficace – per esempio tende a evitare che si formino grandi gruppi di pressione, come quelli che si erano creati all’inizio della Conferenza di Parigi–, ma spesso porta a imporre decisioni dei Paesi più ricchi e potenti.
La Conferenza di Parigi aveva adottato proprio questa metodologia, che però si era rivelata totalmente fallimentare: i gruppi, invece di dissolversi, si erano irrigiditi, i Paesi in via di sviluppo avevano adottato una politica ideologica e mercoledì sera il fallimento della conferenza sembrava ormai quasi certo. A questo punto è intervenuto il genio diplomatico di Fabius. Nel disperato tentativo di non far fallire un accordo prioritario, il ministro degli esteri francese ha imposto un metodo di lavoro molto particolare, ma che era già stato sperimentato, con discreto successo, alla conferenza di Durban del 2011.
L’indaba è tipologia tradizionale di negoziazione pubblica comune tra gli zulu e gli xhosa (due gruppi etnici dell’Africa meridionale), in cui i vari capi o delegati si riuniscono in cerchio e ognuno, a turno, proclama brevemente il proprio punto di vista sulla questione e, subito dopo, dichiara ciò su cui proprio non può cedere. Fabius ha quindi imposto questa metodologia di lavoro: in una plenaria permanente, ogni Paese era chiamato a dichiarare pubblicamente la propria posizione e ciò che riteneva non negoziabile. Se due o più Paesi iniziavano a litigare su una questione, erano pregati di raggiungere un compromesso in privato, ma sotto il controllo di un facilitatore che doveva (ogni mezz’ora circa) fare il punto della situazione in plenaria. In questo modo si sono spezzati i vincoli di segretezza e di informalità che avevano caratterizzato i gruppi, e, soprattutto, si è dato potere anche a quei Paesi che normalmente non hanno molta voce in capitolo, ma che spesso soffrono maggiormente le conseguenze del cambiamento climatico.
L’High Ambition Coalition
Anche l’Unione Europea è andata anche in soccorso di Fabius. Con un gesto plateale ma strategico, insieme agli Stati Uniti si è messa a capo della cosiddetta High Ambition Coalition (HAC), un insieme di 80 Paesi che volevano un accordo “forte” (obiettivo +1,5°C). Grazie all’HAC, Usa e Ue hanno trasferito il proprio potere negoziale ai Paesi più piccoli e deboli – il gruppo dei Paesi insulari insomma–, adottando le loro richieste. Parallelamente, la Cina si staccava dall’azione indiana e si poneva al fianco dell’HAC, pur non entrandone, in un primo momento, a far parte.
Insomma, il tentativo di manomettere l’accordo da parte di India, Arabia Saudita e Russia si è definitivamente infranto quando, simbolicamente, l’HAC ha chiesto – e ottenuto – di poter entrare tutti insieme e contemporaneamente nell’aula di plenaria il giovedì mattina: non rappresentavano ancora la maggioranza necessaria a far approvare la bozza, ma nel corso della giornata molti Paesi si sono convinti che quello proposto dall’HAC fosse l’accordo migliore. Entrando in sinergia, l’itaba e l’appoggio politico di Usa e Ue hanno permesso a Fabius di arrivare a una bozza di accordo forte, realizzabile e vincolante. In un gesto estremo, e inusuale, il presidente della conferenza ha chiesto che la conferenza fosse prolungata di 24 ore. E non era una richiesta pro forma: come abbiamo visto, i delegati erano stremati da 13 giorni di trattative lunghissime, difficili e insonni. Sabato mattina, il governo francese e il segretario generale delle Nazioni Unite hanno potuto così dichiarare al mondo che un accordo sul clima era stato raggiunto.
L’Italia alla Conferenza
Sotto il profilo tecnico, a capo della delegazione italiana c’era Francesco La Camera, Direttore generale della direzione Sviluppo Sostenibile del Ministero dell’Ambiente, che si è avvalso di 15 esperti ministeriali affiancati da 3 esperti del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (guidati dal Direttore Antonio Navarra), 4 esperti dell’ISPRA e due dell’ENEA. Erano presenti anche 10 parlamentari italiani (tra cui i presidenti delle due commissioni ambiente di Camera e Senato, Giuseppe Francesco Maria Marinello ed Ermete Realacci, e alcuni esponenti del mondo associazionistico, tra cui Mariagrazia Midulla del WWF e Mauro Albrizio di Legambiente.
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Crediti immagini: Yann Caradec, Flickr