IN EVIDENZA

Nanotecnologie e comunicazione, c’è bisogno di nuovi linguaggi

Perché resti vivo il dialogo sulle nanotecnologie bisogna partire dall'educazione scolastica, in modo da creare le condizioni adatte per un linguaggio più aggiornato in materia.

7497637986_7121b45c5b_z
L’educazione scolastica potrebbe essere fondamentale per la creazione di un dialogo sulle nanotecnologie. Crediti immagine: Intel Free Press, Flickr

APPROFONDIMENTO – Quanto ci sono familiari le nanotecnologie? Se si prova a fare un bilancio sul flusso di informazioni relative al nano-mondo, la tendenza che si osserva è che se ne parli troppo o troppo poco. Infatti negli ultimi venti anni circa – ovvero il periodo che ha visto nascere e crescere con sorprendente velocità le nanoscienze – l’attenzione dei media e del pubblico ha toccato vette di grande popolarità per ripiombare di nuovo nel disinteresse più totale, nonostante sembra sia chiara a tutti l’esigenza di stabilire regole condivise nell’utilizzo di nanoparticelle, soprattutto in ambito sanitario. Tra questi due estremi, mentre le nanotecnologie si sono diffuse con discrezione un po’ ovunque, non è stato di fatto ancora formulato un linguaggio adatto che le renda meno invisibili e sospettose agli occhi dei consumatori e dei non esperti in generale. Eppure, come segnalato da un report pubblicato gli ultimi giorni da ACS Nano e segnalato da Nature, c’è un bisogno urgente di educare e formare nuove figure che svolgano anche il ruolo di leader in un settore silenzioso, ma ancora in grande fermento. I nuovi esperti di nanotecnologie dovranno saper parlare diversi tipi di linguaggio, come quello economico, e non solo quello tecnico-scientifico.

A chi tocca regolare anche quest’aspetto delle nanoscienze? Come per tutte le altre discipline scientifiche – come già confermato specie dalle più moderne, come le biotecnologie – la condivisione del sapere al pubblico coinvolge diversi attori. In particolare, le nanotecnologie hanno bisogno anche di un forte lavoro di squadra.

Tecnologie invisibili, soprattutto nei media

Le dimensioni tipiche delle nanotecnologie (1 miliardesimo di metro) non solo ne influenzano le proprietà, ma col tempo si sono rivelate anche la chiave di volta per interpretarne in parte l’impatto sulla società.
Le nanoparticelle fanno paura perché invisibili, eppure è proprio questa la stessa ragione per cui fanno in realtà già parte di molti prodotti presenti sugli scaffali dei supermercati, dai cosmetici agli utensili per la cucina, senza che ci sia una reale, diffusa consapevolezza.

Non c’è stato tempo per il grande pubblico di conoscere e accettare le innovazioni del settore?
La scalata delle nanotecnologie dalla scienza di base alla produzione industriale è stata certamente veloce, un’eccezione per i tempi soliti della ricerca scientifica. Le occasioni e i mezzi per presentarle tuttavia non sono in realtà mancati, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, quando questo iniziava ad essere il settore di ricerca mainstream, catalizzatore di fondi e di visibilità accademica.
L’apice è stato raggiunto probabilmente attorno al 2005, periodo in cui la “nanomania” aveva coinvolto anche gli investitori privati, ben disposti a garantire economicamente imprese industriali che si presentassero con il suffisso nano.
Subito dopo, l’attenzione ha iniziato però a smorzarsi. Per rendersene conto basta dare uno sguardo all’andamento dei Google trends  negli ultimi dieci anni per il termine nanotechnologies.
Perché l’interesse per il mondo nano è calato così drasticamente? È stato semplicemente raggiunto l’obiettivo di far entrare le nanotecnologie tra i big della ricerca e sviluppo, o c’è stato un ridimensionamento di aspettative?
Gli investitori hanno in effetti in qualche modo rivalutato l’aspettativa sulle nanotecnologie, ma la ragione è da cercare principalmente nelle peculiarità di questo settore, mai diventato un’industria vera e propria, mentre è rimasto un insieme di applicazioni industriali diversificate e frammentate, seppur molto produttivo.
L’attenzione del pubblico inoltre – premesso che il bacino di utenza di riferimento dei Google trends nel 2005 era probabilmente meno consistente – potrebbe anche essere sintomatica di una certa monotonia nell’informazione e nella divulgazione in genere sulle nanotecnologie. In questi ultimi anni, infatti, il pubblico è stato troppo spesso interpellato e coinvolto in dibattiti a volte troppo tecnici o solo per discutere dei possibili pericoli associati alle nanoparticelle – con un altro picco mediatico raggiunto attorno al 2008 in seguito al boom dei nanotubi al carbonio – mentre ancora si fa fatica a riconoscerle dove già presenti.

Se si pensa di potersi recarsi in un negozio e comprare una singola nanotecnologia un po’ come si può fare per altre tecnologie avanzate, come i pannelli solari, la percezione su questi prodotti è allora molto probabilmente ancora ferma alla fiction di Engines of creation, il libro di Eric Drexler datato 1986 che rappresentava per la prima volta in uno scenario fantascientifico i possibili sviluppi di tecnologie in grado di replicarsi e auto programmarsi, trasformando tutta la materia a base di carbonio nei temibili Grey goo. In questo scenario, rischiano di non avere un effetto duraturo prodotti televisivi come le NBC learn o le serie BBC condotte da Mark Miodownik, per quanto ricchi di informazioni.

Per riprendere questo percorso di dialogo interrotto sulle nanotecnologie, recuperare e rimettere insieme i frutti finora raccolti, secondo gli autori del report segnalato da Nature, bisogna innanzitutto partire dall’educazione scolastica e creare le condizioni adatte per un linguaggio più aggiornato in materia.

L’educazione prima di tutto

Finora è stata la National Nanotechnology Initiative, l’agenzia statunitense interamente dedicata al mondo delle nanoscienze, a condurre uno dei progetti educativi più importanti sviluppati a livello internazionale. La sezione dedicata  alla diffusione delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) fornisce un database consultabile per disciplina e tipo di risorsa, fruibile da ricercatori ma soprattutto da studenti per introdurli ai concetti di base della fisica della materia e della nanoscala. Questa formula di divulgazione risponde, inoltre, all’esigenza di molti Stati che hanno adottato le nanotecnologie tra gli standard scolastici K-12 per le scienze.

Quest’esperienza è già una buona risposta alle lacune da colmare segnalate dal gruppo internazionale di autori dello studio di ACS Nano, appartenenti ai dipartimenti di nanoscienze e scienze dei materiali di Singapore, Seul, Copenaghen e della California.
Avere un riferimento importante nella rete degli istituti di ricerca oggi però non basta più. Prima ancora che i ricercatori, bisogna iniziare a formare già gli studenti universitari se non i liceali.
Per questo, lo studio ricorda gli esperimenti educativi di maggior successo, in cui si è trovata una sintesi efficace tra percorsi formativi di tipo scientifico ed economico.
In più, gli autori cercano di individuare in modo più chiaro e concreto i passi di una possibile road map per imparare a parlare correttamente la lingua delle nanotecnologie. Un esempio: non commettere l’errore di ignorare gli scambi interculturali e le collaborazioni internazionali, mai sufficienti, anche fuori dai laboratori. Le nanoscienze del resto sono per definizione interdisciplinari e si nutrono perciò di condivisione e aggiornamento continuo. Inoltre, cercare di non limitarsi all’istruzione, ma ispirare gli studenti, in particolare individuando nuove figure di riferimento. Non necessariamente scienziati, come lo sono stati gli ultimi anni Steve Jobs, Mark Zuckerberg o Elen Musk. È inoltre necessario facilitare più concretamente il dialogo, come fatto di recente dalla Molecular Frontiers Foundation, che coinvolge anche il nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Non si può insomma continuare a ricorrere sempre e solo a Richard Feynmann, per quanto l’eredità culturale del suo contributo alla divulgazione di massa sulle nanotecnologie sia ancora piuttosto efficace – anche perché, in sostanza, risulta essere ancora l’unico davvero popolare.

Leggi anche: Nanotecnologie e regolamentazioni, a che punto siamo?

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia

Condividi su
Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.