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La scienza della coscienza, da Francis Crick ai TED Talk

Quanto siamo lontani da una teoria scientifica sulla coscienza condivisa dalla maggior parte degli scienziati e attraverso le varie discipline?

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A rompere il ghiaccio con lo studio sulla consapevolezza del sé, un’idea introdotta da Cartesio, fu il premio Nobel Francis Crick. Che ipotizzò si trovasse nel claustrum, una piccola (e oscura) regione del nostro cervello.

APPROFONDIMENTO – L’annosa questione di che cosa sia la coscienza va avanti dal Seicento, quando Cartesio ipotizzò che la mente umana dovesse essere fatta di qualcosa di speciale, una sostanza immateriale in grado di conferirci la consapevolezza di noi stessi e che, probabilmente, fosse nientemeno che il risultato della mano di Dio. Alla fine, pensava, chiunque tra noi sa di essere cosciente. Da allora il dilemma di dove e cosa fosse la coscienza ha fatto arrovellare filosofi e scienziati, restando in parte irrisolto tra speculazioni e scetticismo mentre il dualismo di Cartesio si ammantava di strati di fascino. Eppure pochi di noi dubitano dello stretto legame tra mente e corpo, basti pensare alle conseguenze di un danno al cervello sul funzionamento dell’organismo.

È da quando abbiamo afferrato il concetto di coscienza che tentiamo di capirlo, mentre lo studio della mente umana è passato da prerogativa della filosofia a nocciolo delle neuroscienze. Nel frattempo si sono susseguite le ipotesi e visioni più diverse, per esempio l’idea (di scarso successo) che non siamo coscienti dei nostri pensieri ma solo della loro rappresentazione sensoriale nell’immaginazione, o che il nostro cervello ha svariate “modalità zombie” caratterizzate da risposte stereotipate. Un altro aspetto curioso è come ci rappresentiamo la coscienza, grillo parlante ma più spesso “voce interiore”.

Negli ultimi decenni le neuroscienze hanno fatto passi da gigante: con la nascita del cognitivismo, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, abbiamo studiato meccanismi più “tangibili” come la memoria e l’apprendimento, trovato le aree e le reti coinvolte nel linguaggio e, più di recente, esplorato fenomeni come i colpi di genio per capire le basi del problem solving. Mentre l’Eureka diventava scienza, la consapevolezza del sé era ancora in secondo piano. Eppure a rompere il ghiaccio aveva iniziato nientemeno che il biologo molecolare Francis Crick, premio Nobel insieme a James Watson per la scoperta della doppia elica di DNA, pubblicata su Nature nel 1953. Lavorando a quattro mani con il neuroscienziato Christof Koch, già nel 1990 Crick faceva notare che gli scienziati snobbavano la coscienza. Forse perché nessuno trovava il modo giusto di affrontare il problema.

Nel 2005 è stato pubblicato “What is the function of the claustrum?” (Qual è la funzione del claustrum?), in cui i due scienziati (Crick è venuto a mancare nel 2004) speculavano che l’attività di alcuni neuroni fosse la causa diretta della consapevolezza. È stato l’ultimo di una ventina di articoli scientifici scritti insieme, e i dettagli del meccanismo non erano ancora chiari: gli scienziati ipotizzavano che i neuroni responsabili si trovassero nella corteccia cerebrale e in altre aree a essa connesse come il talamo, ma in particolare nel claustrum, un’oscura porzione del cervello sulla quale gli scienziati si interrogano da tempo (non hanno ancora smesso). I colleghi al Salk Institute videro questa mossa come un rischioso salto nel vuoto per Koch.

Un collega più anziano mi portò fuori a pranzo e disse che sì, aveva un estremo rispetto per Francis, ma lui era un premio Nobel e un semi-dio perciò poteva fare ciò che voleva, mentre io non avevo nemmeno un incarico di ruolo, perciò avrei dovuto stare attento. Continuare a occuparmi della scienza mainstream! Perché non rimandare simili questioni alla pensione, quando ormai vicini alla morte ci si può preoccupare dell’anima e di cose del genere?

Koch, oggi un famoso neuroscienziato, ha presentato il lavoro con Crick anche nel libro “The Quest for Consciousness: A Neuroscientific Approach” (La ricerca della coscienza: un approccio neuroscientifico). Il cuore della sua ricerca resta capire come la coscienza sia legata al cervello e come le reti neurali siano promotrici di tutti quegli attimi quali il “percepire i colori, spaventarsi di fronte a un’altezza, apprezzare il calore del sole sulla pelle”. Si tratta del cosiddetto Hard Problem, o come lo spiegano i due esperti in un altro lavoro, A framework of consciousness, dello spiegare l’essenza delle esperienze: the redness of red, the painfulness of pain e via dicendo. Un framework, cioè una cornice, non è un’ipotesi né un insieme di ipotesi ma un suggerimento ragionato su come si dovrebbe affrontare un ambito di studio. La primissima struttura della doppia elica, per esempio, già suggeriva il ruolo dei geni, la loro replicazione e attività. Ma per quanto già vicina alla realtà non prevedeva l’editing dell’RNA né gli introni (le regioni non codificanti dei geni): era un framework. Ed è quello che i due scienziati hanno fatto nel loro trattato sulla coscienza, abbozzando il percorso dell’attività neurale e le sue connessioni.

Questione di connessioni

Più di recente Koch ha collaborato anche con il neuroscienziato italiano Giulio Tononi, oggi alla University of Madison nel Wisconsin, portando lo studio della consapevolezza ad abbracciare anche l’ambito dell’intelligenza artificiale. Secondo la teoria della coscienza, infatti, un computer programmato in modo tale da mimare le connessioni del cervello umano potrebbe essere a sua volta cosciente. Koch e Tononi hanno investigato questa ipotesi applicando le nozioni della coscienza biologica alla coscienza artificiale (AC, artificial consciousness o MC, machine consciousness), l’ambito di studio a cavallo tra l’intelligenza artificiale e la robotica cognitiva che cerca di definire che cosa di preciso andrebbe sintetizzato in modo da trovare coscienza in un engineered artifact, ovvero una macchina.

L’idea alla base della teoria dell’informazione integrata (integrated information theory) di Tononi è che l’esperienza cosciente è il risultato dell’integrazione di una gran varietà di informazioni. Quando apriamo gli occhi non scegliamo di vedere in bianco e nero oppure a colori, ma è il nostro cervello a tessere una complicata rete a partire da processi cognitivi e sistemi sensoriali. Tononi ha assegnato un valore numerico, chiamato phi, al grado di irriducibilità di questa integrazione delle informazioni. Quando phi è zero il sistema si può ridurre alle sue componenti, se è diverso da zero diventa più della semplice somma delle sue parti.

Con questo stratagemma si spiegherebbe perché diverse specie hanno diversi livelli di coscienza e perché una macchina non potrebbe arrivare alla coscienza umanamente intesa. O come ha spiegato Koch, “Puoi simulare il meteo in un computer, ma non sarà mai davvero bagnato”.

Questa teoria dell’informazione integrata è stata testata in modo rigoroso proprio misurando fino a che punto si spinge l’integrazione. I ricercatori hanno progettato un apparecchio che stimola il cervello attraverso la corrente elettrica, in modo da misurare quanto i circuiti neurali siano interconnessi. Quando ci addormentiamo o veniamo sottoposti ad anestesia scivoliamo nella non-coscienza e lo strumento ha mostrato che anche le connessioni all’interno del nostro cervello declinano. Al contrario, nei pazienti che dopo un ictus soffrono di sindrome locked-in (o sindrome del chiavistello), in cui sono coscienti e svegli ma non possono muoversi né comunicare per via di una paralisi di tutti i muscoli volontari, l’integrazione del cervello non diminuisce. Nei pazienti in coma, invece, sì.

Un altro noto scienziato, il matematico di Oxford Roger Penrose, ha affrontato la questione da un diverso punto di vista. Secondo Penrose la maggior parte dei “calcoli” che avviene nel nostro cervello non è cosciente, perché la coscienza è qualcosa di molto diverso, posizionata al di fuori delle leggi computazionali della fisica. Nel suo libro, The Emperor’s New Mind, Penrose sviscera proprio questa visione, collocando la comprensione della coscienza in dei gap ancora da colmare all’interno della meccanica quantistica.

Lo scenario zombie non è rimasto confinato al lavoro strettamente scientifico (Crick e Koch ne parlano al punto 2, Zombie modes and consciousness, Modalità zombie e coscienza), ma viene usato anche per spiegare la difficoltà del “localizzare” e capire la coscienza. Ne ha fatto largo uso il filosofo David Chalmers (qui in un TED Talk del 2014, molto discusso, qui in un’intervista del Guardian rilasciata a Oliver Burkeman): in pratica dobbiamo immaginare di avere un clone, un doppelgänger, identico a noi sotto ogni aspetto e che si comporta in egual modo. Dorme, mangia e parla, esprime emozioni come ansia e felicità e l’unica differenza è che non è cosciente. È lo zombie come lo intendono i filosofi quando si parla di coscienza: se qualcuno avesse a che fare con noi o con il nostro doppio, senza sapere chi dei due, non potrebbe distinguerli nemmeno con le migliori tecniche di neuroimaging.

La provocazione – soprattutto filosofica – al problema della coscienza è che trovandola, dunque capendo quali reti neurali, quali parti del cervello ne sono “responsabili”, in realtà stiamo appena scalfendo la superficie. Scopriamo come succede, ma non diamo risposta all’Hard Problem. C’è anche chi pensa che questo non esista affatto o si ferma a posizioni intermedie, specialmente quando l’indagine della coscienza abbraccia anche le altre specie.

Prendiamo il primatologo ed etologo Frans de Waal, che nel suo ultimo libro cala la questione all’interno dello studio delle altre menti. Premette di voler stare alla larga da speculazioni al riguardo e di non voler negare una coscienza ad alcuna specie, ma scrive anche:

Questo fatto [la sua diffidenza nei confronti del ruolo del linguaggio nel processo di pensiero, ndr] mi ha causato una volta un po’ di imbarazzo a un convegno sull’evoluzione della coscienza, quando alcuni colleghi continuavano a riferirsi a una voce interiore che ci dice che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Mi dispiace, dissi, ma io non ho mai sentito tali voci. Sono un uomo senza coscienza oppure – come notoriamente disse una volta di se stessa la grande esperta americana di animali Temple Grandin – “penso per immagini”?

Secondo il filosofo e logico Daniel Dennett, professore alla Tufts University e anche lui TED speaker, la coscienza come la immaginiamo è un’illusione. Il cervello è un organo complesso, impegnato in fitte attività e connessioni, ma non origina nulla di simile alla consapevolezza del sé. L’idea di un mondo soggettivo o di una esperienza interiore sono per lui il frutto del senso comune, quello stesso senso che nel corso dei decenni ci ha spinti ad assumere posizioni anche poi categoricamente smentite. Per esempio pensare che la Terra fosse piatta dopo aver visto la linea dell’orizzonte. È il funzionamento stesso del cervello, diverso da quello di qualsiasi altra parte del nostro corpo, a far supporre che sia in corso qualcosa di non fisico.

Ma a questo punto, se non vi è consenso su cosa sia, dove sia localizzata o cosa comporti, diventa difficile tirare una riga tra chi la coscienza la ha e chi no. Che dire delle altre specie? Serve avere un cervello per essere consapevoli del sé? Un albero è cosciente? Negli animali questo viene esplorato con un esperimento piuttosto limitato, il test dello specchio. Si dipinge una macchia sul corpo dell’animale, cercando di farlo su parti del corpo per lui importanti, e se di fronte alla sua immagine riflessa tenta di pulirla l’interpretazione è che ha consapevolezza di sé, che vede nel riflesso il suo corpo e non quello di un altro individuo. Il test non è unanimemente considerato uno strumento valido, è ormai vecchio di 50 anni e il peso di queste decadi, in cui abbiamo scoperto abilità cognitive animali oltre ogni aspettativa, si fa sentire tutto (ne ho parlato anche qui, ultimi tre paragrafi).

Connessioni e coscienza nei pazienti in coma

Facendo un passo indietro dall’Hard Problem, è stato proprio lo studio dei pazienti in coma a fornire le più recenti risposte riguardo alle parti del cervello collegate alla coscienza, intesa nello specifico come la capacità di sintesi, analisi e integrazione degli stimoli. Un gruppo di ricerca del Beth Israel Deaconess Medical Center ne ha parlato pochi giorni fa sulla rivista Neurology. “Abbiamo trovato per la prima volta una connessione tra le regioni del tronco encefalico coinvolte nell’eccitazione e quelle legate alla consapevolezza, due prerequisiti per la coscienza”, spiega in un comunicato Michael Fox, direttore del Laboratory for Brain Network Imaging and Modulation.

L’eccitazione è regolata a livello del tronco encefalico, la parte del cervello contigua al midollo spinale che è responsabile dei cicli sonno-veglia ma anche del ritmo respiratorio e cardiaco. Da qualche parte nella corteccia cerebrale, dice Fox, sta invece la consapevolezza, componente critica della coscienza. Lui e i colleghi hanno analizzato 36 pazienti con danni al tronco encefalico: in 12 la lesione aveva portato al coma, in 24 no. Mappando i danni si sono accorti di una minuscola area coma-specifica nel tronco, presente in 10 dei 12 pazienti in coma, ma in nessuno dei 24 pazienti di controllo. Servendosi di un diagramma delle connessioni neurali del cervello sano, basato sui dati di Human Connectome, gli scienziati sono andati a cercare quali altre parti del cervello sono connesse alle lesioni. Ne hanno trovate due, nella corteccia cerebrale: la prima nella parte sinistra anteriore dell’insula e la seconda nella corteccia cingolata anteriore. Entrambe erano già state identificate in precedenza per il ruolo in eccitazione e consapevolezza.

Sfruttando un particolare tipo di risonanza magnetica hanno anche scoperto che la loro “rete della coscienza” era compromessa nei pazienti con alterazione dello stato di coscienza. Il valore aggiunto di pensare al coma come un disordine legato a una rete, secondo il gruppo di Fox, è che apre a diversi possibili strategie per le terapie, come la stimolazione cerebrale per aumentare la possibilità di recupero. “Se ci concentriamo sulle regioni e le reti coinvolte, un giorno potremmo essere in grado di svegliare qualcuno che si trova in stato vegetativo persistente? Questa è la vera domanda”, conclude l’esperto.

Continui nuovi spunti e un dibattito che vede incrociarsi filosofia e neuroscienze fanno sì che la corsa al comprendere la coscienza non sia affatto conclusa. C’è anche chi, come l’imprenditore russo Dmitry Volkov, investe nella scienza della coscienza portando i ricercatori a pensare fuori dagli schemi. Nel giugno 2014 Volkov ha finanziato una “crociera” in Groenlandia per 30 dei più promettenti studiosi e accademici di quest’ambito, che tra ghiacciai, escursioni e accesi dibattiti avrebbero potuto – o così sperava lui – ritrovarsi tra le mani un Eureka sulla coscienza. Ma è plausibile che per arrivare a una teoria scientifica sulla coscienza che sia condivisa serviranno altri anni, o forse decenni.

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Come il cervello sceglie di dimenticare alcune cose

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".