IPAZIA

Dal grafene ai super materiali

IPAZIA è una rubrica che vuole raccontare storie di donne scienziate non solo del passato ma anche del presente: Greta Radaelli è una trentenne alla guida di una startup che si occupa di materiali innovativi.

Crediti immagine: Greta Radaelli

IPAZIA – Da sempre amante degli animali, finito il liceo Greta Radaelli stava per iscriversi alla facoltà di Veterinaria. Alla fine, anche grazie a un incontro casuale, ha fatto tutt’altro. Dopo una laurea in Ingegneria Fisica e un dottorato in Fisica al Politecnico di Milano, oggi – a soli trent’anni – è amministratrice unica di BeDimensional, startup nata come spin-off dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova con lo scopo di produrre materiali innovativi, sviluppati combinando materiali comuni con cristalli bidimensionali come il grafene. L’abbiamo contattata per chiederle di raccontarci il suo percorso. A cominciare da quell’incontro fortuito che, in un certo senso, le ha cambiato la vita.

Come mai hai scelto proprio Ingegneria Fisica?

Per caso, nell’estate tra liceo e università, ho incontrato la mia professoressa di matematica delle superiori, che mi ha consigliato di provare Ingegneria. Nella mia mente associavo l’ingegneria a qualcosa di vecchio, di grigio, non l’avevo mai presa davvero in considerazione. La professoressa però mi ha messo il tarlo, mi sono informata meglio e ho scoperto questa disciplina, l’ingegneria fisica, che è una via di mezzo tra la fisica applicata e l’ingegneria elettronica. Ho cominciato a pensare che potesse essere una cosa adatta a me. Così mi sono preiscritta. Nel frattempo ho superato anche il test per accedere a Veterinaria. Avevo un giorno di tempo per lasciare Ingegneria e iscrivermi a Veterinaria. Le sedi delle due facoltà sono vicine. Veterinaria era immersa nel verde, circondata da alberi, Ingegneria era anonima e grigia. Avevo tutti i motivi per scegliere Veterinaria, ma poi la mia parte razionale ha preso il sopravvento. Il giorno dopo ero alla mia prima lezione di ingegneria. Oggi penso che non avrei potuto fare scelta migliore.

Puoi riassumere le tappe della tua carriera?

Finita l’università ho fatto un’esperienza di circa sei mesi in un laboratorio del Dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano. È stato il mio primo contatto col mondo della ricerca. Ho poi avuto la possibilità di fare un dottorato in Fisica. Il progetto verteva sulle memorie magnetiche controllate elettricamente. Sono stata per quasi un anno a Barcellona, all’Institut de Ciència de Materials. Subito dopo il dottorato ho avuto l’opportunità di andare a Parigi per un post-doc. Lì ho cominciato a pensare che, anche se mi piaceva fare ricerca, avevo bisogno di dedicarmi a qualcosa di più concreto. La ricerca di base è fondamentale, se non ci fosse non si potrebbe fare ricerca applicata, ma io volevo occuparmi di qualcosa che fosse trasferibile in un contesto pratico. Ho iniziato a guardarmi intorno e ho trovato un annuncio dell’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) di Genova. Cercavano qualcuno che si occupasse di un progetto industriale. Sono stata assunta. Facevo ricerca e contemporaneamente mi interfacciavo con l’azienda, andavo a testare che la cosa funzionasse. In quel periodo mi sono trovata ad affrontare problemi non di grande complessità scientifica, ma importantissimi sotto altri punti di vista. Lavoravo per rendere più facile staccare pneumatici dallo stampo. Per un’azienda, risolvere un problema di questo tipo può voler dire tempo e soldi risparmiati. È stato formativo e, per certi versi, esaltante.

Com’è nato il tuo coinvolgimento in BeDimensional?

All’IIT abbiamo la fortuna di avere un dipartimento che lavora sui materiali intelligenti – Smart Materials – e un altro che è nato per studiare il grafene – Graphene Labs. Ci è sembrato naturale trasferire questo know-how verso il mondo aziendale tramite una startup. L’idea è quella di combinare materiali standard – plastica, tessuti, carta – con il grafene e altri cristalli bidimensionali, ottenendo così dei super materiali, per esempio plastiche rinforzate o tessuti che conducono l’elettricità. Il grafene è composto da un singolo strato di atomi di carbonio, per questo lo definiamo bidimensionale. Ha delle caratteristiche straordinarie: è estremamente flessibile e leggero, pur essendo duecento volte più resistente dell’acciaio, inoltre resiste alle alte temperature senza rompersi e conduce l’elettricità molto meglio del rame. Esistono altri materiali bidimensionali, come il nitruro di boro e il disolfuro di molibdeno, prodotti con la stessa tecnologia utilizzata per il grafene. A BeDimensional facciamo due cose: produciamo grafene e altri materiali bidimensionali –  sotto forma di polvere o dispersi in solventi a formare un inchiostro – e creiamo dei semilavorati in cui uniamo il grafene o gli altri cristalli bidimensionali a materiali comuni, come la plastica o i tessuti. In questo momento abbiamo alcuni prodotti che stanno arrivando al mercato. Per esempio un casco o delle scarpe super resistenti ma incredibilmente sottili e leggere. Abbiamo una buona capacità di produzione, circa cento litri di inchiostro di grafene a settimana, ma più che sulla produzione stiamo lavorando molto sullo sviluppo di ricette per nuovi super materiali che possano fare la differenza sul mercato.

Qual è il tuo ruolo all’interno dell’azienda?

Sono amministratrice unica. Mi occupo della gestione della parte burocratica, di interfacciarmi con l’esterno e di supervisionare la parte tecnica. I tre soci fondatori sono Ilker Bayer – Technologist presso Smart Material Group di IIT, Francesco Bonaccorso – Technologist presso i Graphene Labs e Vittorio Pellegrini – Senior Researcher, direttore dei Graphene Labs. Sono figure fondamentali perché portano conoscenze e mi aiutano in ogni momento sulle scelte da fare. Per il lavoro in laboratorio, invece, sono affiancata da due ragazzi.

Quindi sei al tempo stesso ricercatrice e imprenditrice?

Sì, essere una figura di mezzo tra questi due mondi mi piace molto e ho la fortuna di avere supporto sia da una parte che dall’altra. Ho la sensazione che questo però sia possibile solo quando si è una piccola startup, quando l’azienda crescerà il tempo a disposizione per fare entrambe le cose sarà sempre meno. A un certo punto bisogna specializzarsi: diventare un manager con un background scientifico, ma che non può seguire le ricerche giorno per giorno, oppure occuparsi solo della parte scientifica e diventare CTO (Chief Technical Officer). Personalmente, non saprei scegliere. Mi piacerebbe continuare a essere una figura di mezzo, amo entrambi i ruoli.

Pensi che il fatto di essere una donna possa aver reso le cose più difficili?

Durante la mia carriera accademica non ho mai avuto questa sensazione. All’università le ragazze erano il 50% degli iscritti ed erano trattate come i ragazzi. Lo stesso durante il dottorato. Nel mondo aziendale, invece, ho avuto alcune difficoltà. Quando bisogna prendere decisioni rischiose, per esempio, il parere di una ragazza giovane vale meno di quello di un navigato capitano d’industria. È vero, quando si è giovani si ha tanto da imparare e bisogna avere l’umiltà di ascoltare, ma ci sono situazioni in cui il tuo parere conta comunque di meno, non importa che tu dica una cosa interessante oppure no. Non sono mai stata messa da parte, ma a volte ho la sensazione di essere considerata un po’ meno. Penso che la maggior parte dei problemi derivi dal fatto che più si sale di livello gerarchico, meno donne si trovano. Non si è abituati al fatto che ci siano figure femminili in certi ambienti. In un contesto di soli uomini, la donna viene considerata fuori posto. La maggior parte delle volte, durante le riunioni, sono la persona più giovane e l’unica donna, faccio una fatica quasi doppia a dimostrare di essere una persona sveglia e capace di dire cose intelligenti. In un certo senso, devo guadagnarmi il rispetto e la considerazione che per gli altri sono garantiti.

C’è una ricercatrice o una scienziata che consideri un modello?

Non ho mai avuto un modello specifico, ma nel mio percorso ho incontrato delle persone che mi hanno segnato: donne di spessore, che si sanno far valere, sono brillanti e riescono a competere. Per esempio la mia professoressa di matematica del liceo, una figura femminile che per me è stata un punto di riferimento. Ultimamente ho conosciuto Amalia Ercoli-Finzi, la mamma del progetto Rosetta, e devo dire che è davvero un concentrato di energia e passione. Ecco, lei dovrebbe essere un modello per tutte le donne.

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Simone Petralia
Giornalista freelance. Amo attraversare generi, discipline e ambiti del pensiero – dalla scienza alla fantascienza, dalla paleontologia ai gender studies, dalla cartografia all’ermeneutica – alla ricerca di punti di contatto e contaminazioni. Ho scritto e scrivo per Vice Italia, Scienza in Rete, Micron e altre testate. Per OggiScienza curo Ipazia, rubrica in cui affronto il tema dell'uguaglianza di genere in ambito scientifico attraverso le storie di scienziate del passato e del presente.