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Glutine o non glutine: orientarsi tra celiachia e dintorni

Auto-diagnosticarsi una sensibilità al glutine è una buona idea? Come si devono comportare le persone a rischio di celiachia? Quanto siamo lontani da una terapia che permetta ai celiaci di mangiare alimenti con glutine? Il nostro approfondimento per orientarsi meglio, come consumatori ma anche come pazienti

“Negli ultimi cento anni abbiamo mangiato moltissimo frumento, lasciando da parte altri cereali. In questo senso diversificare la dieta può portare dei vantaggi, perché si introducono ingredienti diversi, come la quinoa.” Crediti immagine: Pixabay

Come mostrano i dati italiani, la celiachia è ancora l’intolleranza alimentare più diffusa: al 31 dicembre 2015 i diagnosticati erano 182.858, più del triplo rispetto al 2007 grazie alla maggior sensibilità dei medici e del personale sanitario. Eppure la prevalenza di questa patologia è dell’1%. Significa che i celiaci italiani sono almeno 600.000, ma la maggior parte di loro non lo sa.

Allo stesso tempo sempre più persone scelgono di escludere il glutine dalla propria dieta senza aver effettuato gli accertamenti. Negli Stati Uniti il fenomeno è evidente: meno dell’1% della popolazione ha una diagnosi di celiachia, ma circa il 25% dei consumatori ha consumato cibo gluten-free nel 2015, un aumento di quasi il 70% rispetto al 2013. Il paziente che sospende il glutine dalla dieta, sottolinea il rapporto del Ministero della Salute sulla celiachia in Italia, avrà un miglioramento clinico che lo porterà a non volerlo più reintrodurre. Il risultato è che gli accertamenti per la celiachia, condotti attraverso ricerca sierologica e biopsia della mucosa duodenale, risulteranno sempre negativi. Anche nei celiaci.

Senza glutine per scelta: è una buona idea?

“Non è consigliabile seguire una dieta senza glutine in assenza di una patologia diagnosticata”, dice a OggiScienza Carmen Gianfrani, immunologa mucosale e ricercatrice dell’Istituto di Biochimica delle Proteine IBP-CNR. “I prodotti gluten-free possono avere un elevato indice glicemico e un maggior contenuto in grassi. Quando si sostituiscono i farinacei con altri tipi di farine o amido, per rendere più gradevoli prodotti come biscotti e dolci senza glutine spesso li si arricchisce di lipidi e zuccheri. In questo senso la cosa migliore è inserirli in una dieta ‘naturale’ e bilanciata, che sia ricca anche di vegetali, di proteine e che comprenda una gran varietà di alimenti diversi, non solo confezionati. Variare è fondamentale”.

Vari studi in passato hanno valutato la dieta gluten-free e le proprietà nutrizionali dei prodotti, anche per il rischio di obesità, in modo da identificare gli aspetti migliorabili nell’interesse dei pazienti. Allo stesso tempo sui prodotti per celiaci, di pari passo con l’aumento delle diagnosi, sono stati fatti molti passi in avanti in modo da garantire ai consumatori la massima varietà possibile, un’alimentazione equilibrata e dei cibi gustosi anche senza glutine.

“Diversificare è l’aspetto fondamentale”, conferma a OggiScienza Virna Cerne, leader nell’Area Science Park di Trieste del dipartimento ricerca e sviluppo dell’azienda Dr. Schär, che produce alimenti senza glutine. “I prodotti senza glutine vengono studiati appositamente per consentire un equilibrio nutrizionale idoneo e oggi vi si presta molta attenzione, in modo da attenersi agli standard di prodotto. È un settore molto controllato e confrontando i prodotti senza glutine con quelli normali, il contenuto di grassi e sale può essere in alcuni casi anche inferiore. Si percepisce ancora il prodotto senza glutine come un alimento più povero, ma non è così”.

In questi prodotti la farina di frumento viene sostituita con altre senza glutine, ad esempio quella di miglio o di grano saraceno, “che dal punto di vista nutrizionale sono molto interessanti”, prosegue Cerne. “Negli ultimi cento anni abbiamo mangiato moltissimo frumento, lasciando da parte altri cereali. In questo senso diversificare la dieta può portare dei vantaggi, perché si introducono ingredienti diversi, come la quinoa. I grani antichi, invece, hanno un livello di glutine troppo alto per i celiaci”.

La ricerca scientifica sui cosiddetti “grani antichi” è uno dei filoni ai quali si dedica Gianfrani, per identificare e studiare cereali con un glutine più digeribile. Non si tratta di una vera alternativa, perché questi grani non si possono inserire nella dieta di un celiaco, ma potrebbero essere utili per le persone con sensibilità al glutine non celiaca (NCGS, Non-Celiac Gluten Sensitivity) o per la prevenzione.

“Stiamo cercando dei cereali con un glutine più digeribile”, spiega Gianfrani, “e l’abbiamo identificato nel monococco. Abbiamo simulato in vitro un apparato digerente, con enzimi che andavano dalla pepsina fino a quelli dell’ultimo tratto dell’intestino. Mettendoci il glutine del monococco e quello del grano tenero, il primo ha dato luogo a frammenti più piccoli, meno tossici. Ora stiamo dando questo glutine a dei celiaci per vedere se la risposta che scatena è ridotta. Inoltre vorremmo capire quanto glutine può mangiare una persona a rischio prima che si inneschi la patologia, un aspetto che è ancora poco chiaro. Sappiamo che nei celiaci il glutine deve rimanere al di sotto delle 20 parti per milione, ma per i soggetti a rischio non ci sono ancora evidenze chiare sulla quantità soglia, 50, 100 milligrammi al giorno. Se riuscissimo a capire qual è, e trovassimo un grano che dopo la digestione rilascia una quantità di glutine inferiore a questo valore soglia, allora forse potremmo parlare di prevenzione”.

Una proteina difficile

Rispetto ad altre proteine che vengono digerite rapidamente e quasi del tutto, il glutine richiede molto più tempo. “È una proteina rognosa”, conferma Gianfrani, “che per via della sua composizione non si presta molto al taglio da parte degli enzimi. Si comporta quasi come un virus e innesca una reazione infiammatoria in tutte le persone, non solo nei celiaci”.

Secondo le attuali linee guida, un soggetto a rischio non dovrebbe iniziare la dieta senza glutine in assenza di sintomi e degli anticorpi. Se invece gli anticorpi ci sono, si discute su come procedere. Dal punto di vista della letteratura, si parla di rischio in base alla combinazione dei geni HLA; “negli omozigoti ad esempio ce ne sono tre copie, il che significa rischio maggiore, mentre in un assetto di eterozigosi sono di meno dunque anche il rischio di celiachia è minore. Ma più di questo non sappiamo. E la reazione infiammatoria al glutine è la stessa, quindi immaginiamo che siano coinvolti anche altri geni: l’argomento è tutt’ora aperto”.

Sul piano clinico, la posizione del Ministero della Salute è molto chiara, è fondamentale combattere l’autodiagnosi. Nessun paziente dovrebbe escludere del tutto il glutine prima di un consulto medico, perché questo impedisce di fare l’accertamento “con tutte le conseguenze del caso”. Allo stesso tempo il gluten-free è diventato un approccio alla dieta quasi di moda, perché i cibi privi di glutine sono spesso percepiti come in assoluto più sani rispetto a quelli con glutine, oppure dietetici.

“Non userei il termine moda, perché molti hanno necessità di seguire una dieta senza glutine, che un tempo si consigliava esclusivamente ai celiaci”, commenta Cerne. “Sappiamo che la prevalenza è dell’1% ma molte meno persone sanno effettivamente di essere celiache; allo stesso tempo molti si sono resi conto che un’alimentazione senza glutine li faceva sentire meglio ed è emerso che vari disturbi legati al glutine non rientravano nei canoni della celiachia. In questi casi si parla di sensibilità al glutine, che oggi è riconosciuta dai medici. Sembra ce ne siano vari tipi e sono in corso studi per comprenderla meglio”.

I pazienti con NCGS non sono di fatto allergici al grano né celiaci, ma dopo aver mangiato alimenti che lo contengono hanno sintomi come gonfiore addominale, stanchezza, nausea, dolori. La posizione del Ministero della Salute è piuttosto cauta:

«Pazienti con tali caratteristiche sono noti da anni ma è bene premettere che, nonostante un numero crescente di essi riferisca quadri di questo tipo, l’esistenza stessa della sindrome è ancora messa in dubbio da numerosi esperti. Più in particolare, il fatto che i disturbi (quasi tutti soggettivi!) migliorino all’esclusione del glutine e peggiorino alla sua reintroduzione viene considerato come legato al ben noto effetto placebo e nocebo delle diete da eliminazione e provocazione […] Tutti, pertanto, concordano sul fatto che i risultati finora ottenuti si riferiscono a pazienti presunti, ma non sicuramente portatori di tale sindrome, e sulla necessità di studi ulteriori e più approfonditi»

A oggi non esistono marcatori o parametri chiari per fare una diagnosi di NCGS, “anche perché non c’è la stessa infiammazione all’intestino presente nella celiachia”, commenta Gianfrani. “Esclusa questa e l’allergia al glutine, si prova ad allontanarlo per vedere se la situazione migliora. Poi lo si reintroduce e si valutano gli eventuali sintomi”. Non è del tutto chiaro se nella NCGS serva allontanare il glutine o basti diminuirne le dosi, se la soglia di sensibilità dei pazienti sia ridotta o se il glutine abbia maggior effetto fermentante, né ci sono dati chiari riguardo alle possibili complicazioni (che per la celiachia comprendono linfomi, sterilità e malattie autoimmuni). Nel 2016 i dati dello studio italiano Glutox, condotto su 140 pazienti tra i 18 e i 65 anni, hanno portato qualche elemento in più.

Tutti i partecipanti lamentavano sintomi come stitichezza, dolori addominali, o stanchezza dopo aver mangiato glutine, ma nessuno era allergico al grano né celiaco. Dopo tre settimane di dieta senza glutine, tutti hanno ricevuto pillole che contenevano glutine o un placebo. Nessuno sapeva quale delle due stesse ricevendo; così è stato possibile capire chi soffriva di colon irritabile e chi invece sperimentava un peggioramento per il consumo di pasta o pane. Stando ai risultati, il 14% dei partecipanti aveva effettivamente disturbi legati al consumo di glutine, perché i sintomi si presentavano di nuovo re-introducendolo con la pillola.

Per approfondire il tema della sensibilità al glutine, leggi la nostra intervista a Luca Elli del Centro per la Prevenzione e Diagnosi della Malattia Celiaca al Policlinico di Milano.

Le linee di ricerca

Per ora l’unica terapia possibile per un celiaco consiste nel rimuovere il glutine e seguire una rigorosa dieta gluten-free per tutta la vita. Ma sono in fase di studio altri approcci. “Nel reagire all’infiammazione provocata dal glutine, tutti i celiaci mettono in atto un meccanismo di compensazione attraverso delle cellule regolatorie che producono l’interleuchina 10, una citochina anti-infiammatoria”, spiega Gianfrani. “In collaborazione con il San Raffaele di Milano stiamo cercando di caratterizzare queste cellule: l’idea è isolarle, clonarle ed eventualmente pensare a una terapia di tipo cellulare. Sul lungo termine, l’obiettivo è sviluppare un farmaco che consenta al celiaco di alimentarsi liberamente”.

I filoni di ricerca sono principalmente due. Il primo riguarda un vaccino terapeutico e si basa sulla somministrazione sottocutanea di tre frammenti di glutine. “Si tratta di tre peptidi che inducono nel paziente la risposta infiammatoria. Gli scienziati li hanno caratterizzati, hanno elaborato un costrutto che li contiene e lo stanno somministrando”, continua Gianfrani. “L’effetto è proprio l’attivazione delle cellule regolatorie di cui parlavamo poco fa, che producono l’interleuchina 10 e potrebbero consentire una tolleranza al glutine. Gli ultimi dati noti riguardano studi di sicurezza condotti sia su persone sane che celiache: somministrato per circa un mese, una volta a settimana, non ha scatenato la patologia né avuto effetti collaterali”.

Il secondo filone riguarda l’endopeptidasi, un enzima che digerisce il glutine: è stata elaborata una pillola a base di questi enzimi che agisce a livello dello stomaco. Tuttavia “al momento non è pensata per una terapia, ma per essere assunta dopo un’introduzione di glutine accidentale”, precisa Gianfrani. Un po’ come si fa con gli iniettori per l’epinefrina in caso di shock anafilattico.

Gluten-free e metalli pesanti

A febbraio ha attirato l’attenzione uno studio dal titolo “The Unintended Consequences of a Gluten-Free Diet” (le conseguenze indesiderate di una dieta senza glutine), pubblicato in open-access su Epidemiology, secondo il quale nelle persone che mangiano gluten-free sono più alti i livelli di arsenico e cadmio nelle urine, e di mercurio nel sangue, rispetto a chi segue una dieta normale. Lo studio ha analizzato la dieta di oltre 7.000 persone, 73 delle quali hanno detto di non mangiare glutine; proprio tra queste gli scienziati hanno identificato concentrazioni più elevate dei tre elementi. Gli effetti dell’esposizione a bassi livelli tramite il cibo non sono del tutto noti, scrivono gli autori, ma potrebbe aumentare il rischio di cancro e altre malattie.

“Non è l’unico studio che ha indagato i livelli di arsenico in chi segue dieta senza glutine”, commenta Gianfrani, “ma sembrano comunque al di sotto della soglia di preoccupazione. Inoltre i dati sono decisamente scarsi, se pensiamo che si basa su 7000 soggetti dei quali poco più di 70 seguono una dieta gluten-free. L’aspetto della numerosità è debole. Trattandosi poi di uno studio basato su questionari, come spesso si fa in quest’ambito, è anche difficile valutare se le risposte date dalle persone sulla propria dieta siano veritiere”.

Come ha spiegato in un’intervista a National Geographic Italia Marco Silano, direttore del reparto Alimentazione e nutrizione dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), anche nel nostro paese è in corso uno studio sul tema, condotto proprio dall’ISS e dall’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, per valutare il livello di esposizione dei bambini celiaci all’arsenico anche attraverso l’analisi specifica dei prodotti gluten-free che consumano.

Leggi anche: Se il cibo ci aiuta a capire il cervello

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".