SALUTE

Cura dei tumori negli anziani: ancora troppo poca letteratura

Poco interesse da parte delle case farmaceutiche e scarsa collaborazione fra oncologi e geriatri. E la cura rimane il più delle volte empirica. Ne parliamo con Silvio Monfardini

È cosa nota infatti che il rapporto fra l’efficacia di un farmaco e la sua tossicità varia a seconda dell’età, e in particolare nel caso dei pazienti anziani il fattore tossicità è cruciale. Crediti immagine: Pixabay

SALUTE – Secondo le più recenti stime, nel 2050 circa una persona su 3 avrà più di 65 anni, un dato che rappresenta una sfida non indifferente per la salute pubblica in genere e per l’oncologia in particolare. Secondo i dati forniti da AIRC, il 64% dei 300.000 nuovi casi di tumore che si registrano ogni anno in Italia riguarda proprio gli over 65. Il rischio di ammalarsi di cancro è infatti di circa quattro volte superiore in questa fascia d’età rispetto anche solo alla fascia precedente, quella compresa fra i 45 ai 64 anni.

Il problema è però che da un lato la letteratura scientifica, per esempio quella riguardante la produzione di un nuovo farmaco oncologico, molto spesso non comprende campioni di pazienti così anziani, e dall’altro il fatto che, durante la terapia, il malato di cancro anziano si trova quasi sempre a essere gestito da un team composto esclusivamente da oncologi, che non prevede dunque la presenza di un geriatra. Fattori che rendono la cura del paziente anziano con cancro ancora troppo empirica. Ne abbiamo parlato con Silvio Monfardini, coordinatore del Programma di oncologia geriatrica dell’Istituto Palazzolo della Fondazione Don Gnocchi, e vincitore nel 2015 del presitigioso “B.J. Kennedy Award per i suoi studi nell’ambito dell’oncologia geriatrica.

È cosa nota infatti che il rapporto fra l’efficacia di un farmaco e la sua tossicità varia a seconda dell’età, e in particolare nel caso dei pazienti anziani il fattore tossicità è cruciale. Nel caso della chemioterapia per esempio, i pazienti anziani sono tendenzialmente anemici, si disidratano molto più facilmente, producono meno albumina, hanno valori inferiori di creatinina, e hanno maggiore rischio di sviluppare tossicità epatica e cardiaca.

Certo, avere più di 70 anni non significa essere necessariamente pazienti considerati “vulnerabili”. “Nei casi di pazienti cosiddetti fit, cioè le cui condizioni di salute sono sostanzialmente analoghe a quelle di un individuo adulto più giovane, anche le terapie oncologiche possono essere le medesime – spiega Monfardini – ma questa non è certo la prassi, e per i pazienti ‘vulnerabili’, che rappresentano circa il 25% della popolazione oltre i 70 anni nonostante le linee guida la letteratura medica è ancora carente. Solo negli ultimi anni sono state avviate le prime ricerche di base e i primi trial clinici rivolti a pazienti over 70, ma non esistono al momento risultati pubblicati in materia”.

Una ragione cruciale di questo fenomeno è lo scarso interesse da parte delle case farmaceutiche a sperimentare i propri farmaci, già in commercio per i pazienti adulti, anche su individui anziani. “Le ragioni di questo scarso interesse sono diverse – prosegue Monfardini – anzitutto un paziente anziano costa, sia in termini di denaro che di tempo. Abbisogna di care-givers, è maggiormente esposto alla tossicità, e ha bisogno di supporto per il consenso informato e per qualsiasi pratica burocratica.” E soprattutto – continua Monfardini – in questi pazienti i risultati in termini di benefici possono essere inferiori. “Questo fa sì che difficilmente si apra una nuova sperimentazione, solitamente costosa, per testare un farmaco che è già stato approvato, o che scelga di considerare anche un campione di questa fascia di età durante i trial clinici per un nuovo farmaco. Noi abbiamo provato negli anni a disegnare dei trial clinici che comprendessero anche questa fascia d’età, ma rimangono dei casi isolati”.

La conseguenza è che la somministrazione dei trattamenti da parte degli oncologi procede ancora empiricamente, spesso basandosi sulla propria esperienza e su quella dei colleghi, oltre che sulle linee guida, come quelle elaborate nel 2015 da AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica). Queste ultime precisano per esempio che la procedura stessa per l’identificazione dei pazienti considerati vulnerabili non è ancora standardizzata, il che rende ancora più complesso ed empirico calibrare le terapie.

Un altro punto importante della faccenda riguarda – come si rilevava in apertura – la collaborazione fra oncologi e geriatri durante i trattamenti, che avviene di rado nei reparti. “Proprio in ragione da un lato dell’intrinseca fragilità dei malati oncologici anziani e dall’altro della scarsa letteratura in materia, la collaborazione fra l’oncologo che ha in cura il paziente e un geriatra andrebbe favorita in tutti i modi, anche perché è un diritto dell’anziano – prosegue Monfardini – ma ancora questo non accade quasi mai.” E qui ci si collega al problema della formazione degli oncologi, che non vengono ancora preparati in maniera specifica per il trattamento degli anziani, che dovrebbe avvenire con il contributo del geriatra. Ma anche viceversa. “Per questo noi organizziamo dei corsi di aggiornamento, come quello che organizziamo ogni anno con l’Organizzazione Internazionale di Oncologia Geriatrica, che quest’anno si terrà fra giugno e luglio a Treviso.”

@CristinaDaRold

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.