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Il batterio mangiapetrolio di Deepwater Horizon

Sette anni dopo uno dei disastri ambientali più gravi della storia, uno studio ecologico dell'Università di Berkeley chiarisce come "lavorano" i batteri mangiapetrolio

L’ecologo Gary Anderson al lavoro nel suo laboratorio. Fotografia di Berkeley Lab

AMBIENTE – Oltre 500 000 tonnellate di petrolio greggio finite in mare, in uno sversamento durato più di 90 giorni. Un totale di 17 miliardi di dollari, il danno alle risorse ambientali causato dal disastro. È Deepwater Horizon, la macchia nera più studiata dagli scienziati, un involontario laboratorio a cielo aperto che sette anni fa ha travolto il Golfo del Messico con l’esplosione della piattaforma petrolifera della British Petroleum. Oggi quel laboratorio ha chiarito le ultime lacune di un aspetto fondamentale: il ruolo dei batteri mangiapetrolio.

Insieme agli emulsionanti chimici usati per contenere lo sversamento, questi batteri hanno degradato fin da subito una grossa porzione del greggio finito nelle acque del Golfo. I ricercatori dell’Università di Berkeley, guidati dall’ecologo Gary Anderson, hanno simulato la loro attività sui plume, i pennacchi di petrolio arrivati a grandi profondità.

Il disastro ambientale, considerato lo sversamento di petrolio più grave della storia degli Stati Uniti, è stato unico nel suo genere anche per quanto è accaduto sott’acqua, ovvero il MOSSFA, marine oil snow sedimentation and flocculent accumulation. Le argille del fiume Mississippi, insieme agli emulsionanti, hanno trasformato la neve marina (la mucillagine emessa dal fitoplancton in condizioni di forte stress, che forma dei “fiocchi”) in una sorta di tempesta marina, pesanti particelle ricche di petrolio che sono precipitate sul fondale del golfo e lì si sono accumulate.

È così che sul fondale, a circa due chilometri dalla superficie, si è formato un “abitante” nuovo: un plume di petrolio ed emulsionanti lungo più di 150 chilometri, difficile da studiare sia per la profondità alla quale si trovava che per l’enorme area colpita dal versamento.

Andersen e i colleghi hanno raccolto campioni d’acqua sul luogo dell’incidente per quattro anni dopo lo sversamento e, impostando una sorta di microecosistema controllato, hanno ricreato all’interno di bottiglie una sospensione di piccole gocce di greggio insolubili unite alla frazione più solubile del petrolio e agli emulsionanti. Una “conserva” di plume fatta in casa per studiare il fenomeno in miniatura e la composizione del campione, nonché dei microbi che lo degradavano nel corso dei primi 64 giorni. Stavolta da vicino.

La prima cosa che è successa nelle bottiglie è stata una rapida crescita di un microbo già noto agli scienziati per il suo ruolo fondamentale nelle fasi iniziali del versamento, ma che era sfuggito alle ricerche precedenti. Sequenziandone il genoma, gli ecologi hanno documentato il suo meccanismo per degradare il petrolio e dato al batterio un nuovo nome: Bermanella macondoprimitus.

L’utilizzo degli emulsionanti è stato fondamentale: hanno separato il petrolio in piccole gocce che sono rimaste a galla e hanno impedito a una grossa porzione del greggio di raggiungere la superficie. Batteri come B. macondoprimitus, precisa Andersen in un comunicato, sono “altamente specializzati per crescere usando delle specifiche componenti del petrolio come fonte di cibo” e l’ampia superficie d’azione fornita dalle gocce ha consentito loro di degradare il petrolio in modo efficace. Un lavoro di squadra tra batteri e agenti chimici.

Farsi aiutare dalla genetica ha permesso di identificare il genoma di tutti i microbi che hanno pasteggiato con il petrolio, oltre agli specifici geni che consentono loro di degradarlo. Ora possiamo identificare gli specifici organismi che entrano in gioco dopo un versamento e “calcolare il tasso di degradazione del petrolio, per stabilire quanto tempo sarà necessario per consumare quello arrivato in profondità”, conferma Andersen. Nella speranza che un disastro simile non si verifichi mai più, conoscere questi meccanismi ci permetterebbe comunque di arrivare più preparati.

È anche possibile che le condizioni ambientali del Golfo del Messico – dove la piattaforma Deepwater Horizon estraeva da uno dei pozzi più profondi per il tempo, con un fondale ricco di fuoriuscite di idrocarburi e gas naturale – abbiano contribuito a selezionare i microbi che sono poi entrati all’opera. Sarebbe interessante fare lo stesso tipo di analisi in altre zone del pianeta interessate dall’attività estrattiva, soprattutto perché le profondità toccate dalla British Petroleum al largo della Louisiana sono state ormai ampiamente superate. In Uruguay, Brasile e India si è arrivati a oltre tre chilometri sotto la superficie oceanica.

@Eleonoraseeing

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".