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Mute di Duncan Jones: quando la libertà creativa diventa caos

Diretto da Duncan Jones (Moon), il film prodotto da Netflix è una grossa delusione

STRANIMONDI – A pochi giorni dalla notte degli Oscar in cui un film di genere fantastico con protagonisti due personaggi con problemi di parola, La forma dell’acqua, ha fatto vincere a Guillermo Del Toro la statuetta per la miglior regia, recuperiamo un lungometraggio prodotto da Netflix che ha proprio un protagonista muto. Si tratta di Mute, un film che aspettavamo con trepidazione già nel 2017, ma che è stato distribuito solamente a fine febbraio di quest’anno.

Il protagonista è Leo (Alexander Skarsgard), un barista amish in una Berlino del 2052 che si colloca nello stesso universo narrativo del primo film del regista Duncan Jones, il capolavoro Moon. Durante la sua infanzia un incidente di barca gli ha devastato la faringe, ma la famiglia osservante ha rifiutato l’uso di tecniche chirurgiche avanzate preferendo affidarsi alla volontà di Dio. Lo incontriamo mentre la fidanzata, la cameriera Naadirah (Seyneb Saleh), gli sta per rivelare un segreto importante, ma sparisce misteriosamente, probabilmente a causa di due chirurghi americani piuttosto bizzarri, Cactus (Paul Rudd) e Duck (Justin Theroux).

Ne nasce un film che sembra una classica quest, in cui Leo si fa spesso largo a scazzottate in un sottobosco metropolitano caratterizzato da prostituzione, pedofilia e neon (con un omaggio non troppo velato all’immaginario di Blade Runner). Il problema è che fin da subito il film fa cilecca. Il personaggio principale è piatto e non ha praticamente nessuna evoluzione durante le due ore di durata del film. In più, la sua caratteristica di amish contrario all’uso della tecnologia poteva essere sfruttata in più di qualche scena didascalica, come quella con il gestore del locale dove fa colazione, che gli spegne la tv per rispetto. La fidanzata è poco più che abbozzata e Jones fa compiere ai due antagonisti principali molti giri a vuoto, tralasciando invece di sviluppare personaggi potenzialmente interessanti come Niki e Oswald, due cattivi del giro della prostituzione.

Sul fronte della fantascienza in senso stretto, Mute è la classica storia che non aveva alcun bisogno di una ambientazione fantascientifica per essere raccontata. Tutta la vicenda si basa sui rapporti tra i personaggi e la ricerca di Naadirah da parte di Leo, ma poteva tranquillamente avvenire ai giorni nostri o nell’Ottocento vittoriano e narrativamente non sarebbe cambiato niente, se non i costumi. Inoltre, ci sono molti elementi del film che non vengono in alcun modo spiegati: perché gli americani faticano a lasciare la Germania e tornare negli USA? Perché Cactus e Duck sono a Berlino? Perché c’è lo stesso Leo? Tutte domande a cui non troviamo risposta, mentre grande spazio è lasciato, per esempio, a un aspetto tutto sommato accessorio della trama come i problemi di pedofilia di Duck.

Dopo altri film prodotti (vedi Bright) o distribuiti direttamente (Cloverfield Paradox) da Netflix si comincia a intravvedere forse una tendenza. L’idea di lasciare totale libertà creativa all’autore (Duncan Jones dirige, ma scrive anche la sceneggiatura originale) senza che ci sia una casa di produzione con una mano forte che guidi o aiuti il film a trovare una propria identità sembra portare a film mediocri e occasioni sprecate che non sono sullo stesso livello delle serie di fantascienza che la stessa piattaforma ha realizzato negli ultimi anni.

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Leggi anche: Il paradosso di Cloverfield

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Marco Boscolo
Science writer, datajournalist, music lover e divoratore di libri e fumetti datajournalism.it