RUBRICHETRIESTE CITTÀ DELLA CONOSCENZA

Come il cervello rappresenta il mondo

Nel nostro cervello gli oggetti sono una rappresentazione di quanto percepiamo con vari sensi: un frutto non è solo il suo colore ma anche consistenza, odore. Come si fondono questi aspetti? Ne parliamo con il neuroscienziato Mathew Diamond

TRIESTE CITTÀ DELLA CONOSCENZA – Nel nostro cervello si crea una rappresentazione di tutti quegli oggetti che incrociamo continuamente nella vita quotidiana. Così un frutto non è solo il suo colore, forma o consistenza, né il profumo che emana quando è molto maturo; vista, tatto, olfatto, gusto, nella nostra mente il risultato è un unico concetto anche se i responsabili della sensazione sono recettori diversi, che agiscono in modo separato. Ma come si crea questa fusione e come funzionano i neuroni e le aree del cervello umano coinvolti nella “traduzione” delle esperienze sensoriali?

È uno dei filoni di ricerca del Tactile Perception and Learning Lab della SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) di Trieste, coordinato dal neuroscienziato Mathew Diamond, che ama riassumere questo lavoro di ricerca con un esempio che riguarda proprio un frutto. “Un esempio che mi piace fare è la banana: ha caratteristiche olfattive, visive e tattili ma il nostro concetto di banana comprende tutte le possibili modalità. Se noi indaghiamo nel nostro cervello chiedendoci ‘cosa è una banana?’ allora lei sarà la fusione di tutte le sue proprietà. Solo che nessuno ha ancora capito davvero come succede”.

Nome: Mathew Diamond
Luogo di nascita: Stati Uniti
Gruppo di ricerca: Tactile Perception and Learning Lab
Cosa amo di più del mio lavoro: Amo quel momento in cui per la prima volta comprendiamo un mistero scientifico, l’illuminazione su un problema che ci ha ossessionato per anni
La sfida principale del mio ambito di ricerca: Controllare la complessità data dai tanti fattori, riuscendo a isolare quello che ci interessa esaminare tenendo sotto controllo anche tutti gli altri

Di cosa si occupa il laboratorio di Tactile Perception and Learning?

Il nostro obiettivo è riuscire a comprendere e quantificare l’attività neuronale dentro il cervello che traduce un’esperienza sensoriale percettiva, ma anche la memoria di quella stessa esperienza. Quando proviamo una sensazione o la ricordiamo è grazie all’attività dei neuroni e noi stiamo cercando di capire di che attività si tratta, come identificarla e spiegare perché funziona come funziona.

Di recente avete pubblicato due studi sull’argomento – uno su Neuron e l’altro su Nature – nei quali fate luce sui meccanismi che ci permettono di combinare diversi segnali sensoriali e memorizzarli. Quali sono gli aspetti più innovativi del lavoro?

Di sicuro aver scoperto il contributo di una specifica parte della corteccia cerebrale, la corteccia parietale posteriore (CPP), che svolge compiti comportamentali sia di percezione che di cognizione. Il fatto che quest’unica area del cervello faccia due cose differenti è già di per sé una novità. Nel primo lavoro abbiamo scoperto come la CPP si trovi all’intersezione di altre regioni che sono collegate a una singola modalità percettiva – tattile, visiva, acustica… – e ricevono segnali da una famiglia unica di recettori. È proprio in questa intersezione che si crea una rappresentazione dell’oggetto, al di là delle modalità con le quali viene esplorato.

Nell’esperimento un gruppo di ratti poteva esplorare una griglia usando il tatto, la vista o entrambi i sensi. Se il ratto usa solo il tatto, attraverso le vibrisse, i neuroni rispondono in un modo. Ma se esplora usando solo la vista, quando la griglia si trova al di là di una barriera di plexiglas dunque non può toccarla, noi vediamo la stessa rappresentazione neuronale. I neuroni, dunque, codificano il mondo in un modo che non dipende dalla modalità percettive con le quali viene sperimentato. Così abbiamo anche scoperto che quando le due modalità vengono usate insieme la performance è superiore alla loro “semplice” somma. Grazie a un modello matematico chiamato inferenza bayesiana possiamo infatti sommarle e quantificare la performance, per poi confrontarla con il risultato effettivo ottenuto dai ratti: quest’ultimo è sempre superiore, il che significa che i neuroni producono una rappresentazione dell’oggetto – data dalle due modalità usate insieme – che è migliore.

Se questo era il primo, qual è il secondo ruolo della CPP?

Studiando gli stessi neuroni su altri topi, in un compito legato alla memoria a breve termine, abbiamo fatto loro confrontare due stimoli: sentivano due suoni uno dopo l’altro e dovevano dirci se il secondo era più forte del primo o meno. Gli animali svolgono benissimo questo compito, ma l’effetto di ogni prova influenza quella successiva. Mi spiego meglio: se il confronto tra i due stimoli fosse “perfetto”, terminata ogni prova il ratto dimenticherebbe quale dei due stimoli precedenti era più intenso e sarebbe così pronto per la nuova prova, pronto ad ascoltare due nuovi stimoli e valutarli. Ma il cervello non funziona così, perché il passato continua a esercitare un effetto sulla memoria attuale. In tempi molto brevi, parliamo di alcuni secondi, il primo stimolo sembra ai ratti via via più simile alla media di quelli sentiti in precedenza e produce errori. È come una sorta di interferenza, che in questo specifico caso non li aiuta ovviamente a stabilire quale dei due nuovi stimoli è più intenso. Questo effetto si chiama contraction bias ed è noto da almeno un secolo, sappiamo che la memoria si muove verso la media ma nessuno aveva individuato quale area del cervello ne fosse responsabile. Noi abbiamo bloccato l’attività della CPP e ci siamo subito resi conto che la performance dei ratti migliorava molto: il primo dei due stimoli veniva ricordato come era senza alcuna influenza da quelli precedenti. Finalmente abbiamo una buona idea di dove ha luogo il contraction bias.

Un meccanismo come questo sembra controproducente, perché nei nuovi compiti che ci troviamo davanti ci sarà sempre un’interferenza legata al passato. Ma se persiste probabilmente è anche utile in qualche circostanza?

In alcuni casi ha un effetto negativo sulla performance, ma in generale è un meccanismo adottato dal cervello perché spesso ci troviamo a dover ricordare qualcosa che ci sfugge. Così diventa utile avere, rispetto a quel ricordo o esperienza, un qualche stimolo. E lo stimolo migliore è il valore mediano. Se chiedo a qualcuno che temperatura c’era ieri a Trieste probabilmente se lo ricorda, se vado indietro di qualche giorno riesco ancora a ottenere una risposta abbastanza precisa, ma cosa accadrebbe se domandassi le temperature di marzo 2017? Probabilmente il mio interlocutore non saprebbe rispondere e l’opzione migliore in questo caso è proprio conoscere le tendenze, le medie stagionali, e rispondere con quel valore.

Il vostro modello di studio è il ratto, perché il loro sistema di vibrisse ha capacità tattili simili alla punta del dito di una mano: può spiegarci meglio questa somiglianza?

Il sistema è ovviamente diverso dal punto di vista fisico: toccando qualcosa con il dito noi abbiamo un contatto tra la pelle e l’oggetto, ma i recettori sono dispersi omogeneamente attraverso la pelle, sono un tappeto continuo. I ratti invece usano solo le vibrisse, che sono peli molto grossi e speciali perché hanno un controllo motorio, ovvero l’animale li può muovere. Alla base della vibrissa c’è un follicolo come nei nostri peli ed è ricchissimo di recettori tattili. I ratti sentono la vibrazione della vibrissa o la sua tensione e questo trasmette loro delle informazioni sull’oggetto.

???? SAVE THE DATE: Venerdì 16 marzo a Trieste, in occasione della Brain Awareness Week, parleremo di percezione sensoriale dal tatto e dalla memoria fino a spazio e tempo, con Mathew Diamond e la neuroscienziata Domenica Bueti???? L’appuntamento è alle ore 18 nello spazio di Trieste Città della Conoscenza, Stazione Centrale, Piazza della Libertà 8. Qui l’evento su Facebook; per ulteriori informazioni: info@triesteconoscenza.it

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".