STRANIMONDI

Una storia di trasformazione e autodistruzione. Annientamento

Alex Garland ha tratto un film dal primo romanzo della trilogia dedicata all’Area X.

STRANIMONDI – Più di due anni fa vi avevamo parlato di un luogo con tutte le carte in regola per far parte degli Stranimondi della nostra rubrica: l’Area X inventata dallo scrittore americano Jeff VanderMeer. Oggi torniamo a parlarne perché Alex Garland – sceneggiatore di film come Sunshine e Non lasciarmi, scrittore di videogiochi e regista dell’acclamato Ex Machina – ha tratto un film dal primo romanzo della trilogia dedicata all’Area X.

La prima cosa da sapere su questo film è che è liberamente ispirato al romanzo. Garland ha chiarito di aver scritto la sceneggiatura quando ancora il secondo libro della trilogia non era uscito e di aver cambiato molte cose, incluso il finale. Ciò che gli interessava era l’atmosfera surreale evocata da VanderMeer, che ha voluto ricreare per poi sviluppare il proprio percorso narrativo. Questa premessa era necessaria perché il confronto fra film e libro è inevitabile, ma non dovrebbe diventare il metro con cui valutare il lavoro di Garland.

Il tema centrale è lo stesso di entrambe le opere: in un’area costiera degli Stati Uniti si verificano fenomeni decisamente insoliti, tanto da rendere necessario l’isolamento della zona che viene sorvegliata e studiata da un’agenzia governativa. Cinque donne, con diverse competenze scientifiche, vengono inviate all’interno di quest’area per studiarla e per capire cos’è successo alle persone inviate nelle precedenti missioni.

In entrambe le versioni, la protagonista di questo gruppo di esploratrici è una biologa, interpretata nel film da una Natalie Portman un po’ monoespressiva e decisamente poco credibile come ex-militare, con la quale è difficile entrare in sintonia. Suo marito (Oscar Isaac) aveva partecipato a una missione proprio nell’Area X, dalla quale è stato l’unico a tornare, dopo un anno, sebbene in condizioni di forte confusione mentale. Il marito è presente anche nel romanzo ma in maniera indiretta – la biologa ritrova i suoi diari nell’Area X e non lo incontrerà mai di persona – ma nel film assume un ruolo più centrale, anche grazie a diversi flashback della sua relazione con la protagonista.

Il rapporto fra questi due personaggi diventa l’asse portante della pellicola di Garland mentre la zona misteriosa, che nei romanzi era una vera e propria protagonista, sul grande schermo diventa il contorno surreale, quasi onirico, del percorso di cambiamento della biologa (che ha anche un nome, Lena, così come le sue compagne di esplorazione, mentre VanderMeer si riferiva a loro solo tramite i loro titoli: biologa, psicologa, antropologa, topografa e linguista). L’impatto visivo di questa bizzarria naturale nel film si manifesta soprattutto attraverso il fenomeno del Bagliore – la barriera luccicante e in continua, lenta espansione che delimita il confine dell’Area X – e tramite le mutazioni che le esploratrici osservano al suo interno: piante dalle infiorescenze bizzarre e animali deformati (i carnivori diventano veri propri mostri). Il livello di surrealtà aumenta verso la fine, quando Lena raggiunge il faro che, anche nei romanzi, svolge un ruolo importante nella vicenda.

Al di là delle trovate visive, però, Garland non riesce a creare un’atmosfera che sia davvero surreale e onirica. Ciò che nei romanzi era un’intensa espressione del concetto di new weird – genere codificato proprio da VanderMeer e sua moglie, basato sulla commistione di elementi fantastici, fantascientifici e horror per innescare il sense of wonder in ambientazioni bizzarre ma al tempo stesso verosimili – nel film si riduce a qualche effetto speciale e qualche creatura deforme. Non abbastanza per rendere l’Area X un qualcosa di più di un fondale insolito per le vicende della protagonista. Non aiuta, in questo senso, la colonna sonora, che alterna temi tesi a giri di chitarra che sembrano fuori contesto.

Dal punto di vista scientifico, il tema della mutazione e del cambiamento viene spesso esplicato in termini biologici da Lena e da alcuni degli altri personaggi, in particolare la dottoressa Ventress, la psicologa. Si parla infatti di come l’invecchiamento sia codificato nei nostri geni, facendo riferimento all’accorciamento dei telomeri, come pure l’autodistruzione, intesa come apoptosi ma anche in senso psicologico. Vengono citati i geni Hox – quelli che controllano lo sviluppo del piano corporeo lungo l’asse testa-coda dell’embrione in tutti gli animali – in un’associazione piuttosto fantasiosa ma comunque interessante dal punto di vista narrativo con la rifrazione: l’Area X, secondo una delle esperte che accompagnano Lena, è in grado di rifrangere onde luminose e radio così come il DNA degli esseri viventi. Non manca, poi, l’immagine di due cellule che si dividono, dove le cellule mutate sono chiaramente distinguibili da quelle normali. Il tutto visto grazie a un campione di sangue messo sul vetrino di un comune microscopio ottico. Un classico dell’ipersemplificazione, che comunque ha senso nel contesto del film.

Biologia e psicologia sono i due binari su cui si muove la storia raccontata da Garland: una riflessione sulla natura dell’essere umano, sulle sue tendenze autodistruttive, sulla trasformazione. Pur prendendo le distanze dai romanzi, soprattutto per quanto riguarda la natura dell’Area X, il regista britannico mantiene alcuni aspetti dell’opera di VanderMeer: una visione naturalistica del cambiamento e la scelta di non voler spiegare tutto in maniera troppo esplicita. Il finale del film, benché più conclusivo di quello del romanzo, è infatti aperto a possibili interpretazioni. Ma non a un seguito, come ha precisato lo stesso regista.

In definitiva, Garland riesce a rielaborare in maniera interessante il materiale originale, adattandolo alle proprie intenzioni senza tradirlo in maniera eccessiva e confermandosi un autore che sa sfruttare le sfumature e i linguaggi della fantascienza per raccontare diversi tipi di storie, sempre profondamente personali. Come ha dimostrato, oltre che in questo film, anche in altri lavori come Sunshine o Ex-Machina. Ciò che manca, in Annientamento, è la capacità di coinvolgere lo spettatore, di immergerlo nella realtà al limite dello psichedelico dell’Area X e nel tormento interiore della protagonista.

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Michele Bellone
Sono un giornalista e mi occupo di comunicazione della scienza in diversi ambiti. I principali sono la dissemination di progetti europei, in collaborazione con Zadig, e il rapporto fra scienza e narrativa, argomento su cui tengo anche un corso al Master di comunicazione della scienza Franco Prattico della SISSA di Trieste. Ho scritto e scrivo per Focus, Micron, OggiScienza, Oxygen, Pagina 99, Pikaia, Le Scienze, Scienzainrete, La Stampa, Il Tascabile, Wired.it.