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Armi da fuoco negli USA, impennata di acquisti con il Covid-19

Subito dopo la proclamazione dello stato di emergenza nazionale da parte del presidente Trump si è registrato un aumento di oltre tre milioni di armi vendute rispetto allo stesso periodo del 2019.

Negli Stati Uniti il primo semestre del 2020 è stato contraddistinto da un’impennata nell’acquisto di armi: lo dicono i dati ufficiali forniti dal National Instant Criminal Background Check System (NICS) dell’FBI, analizzati dal Brookings Institute di Washington. Il NICS è il registro che raccoglie i tentativi di acquisto di armi da parte dei privati presso i venditori autorizzati, obbligati a inviare segnalazione all’FBI per un controllo sulla fedina penale del potenziale acquirente. Si tratta di una procedura in vigore dal 1998 che ha setacciato oltre trecento milioni di richieste di acquisto, negandone più di un milione e mezzo. Naturalmente, questo non significa che ogni acquisto venga poi portato a termine, tuttavia il NICS è la fonte ufficiale per eccellenza per tracciare l’andamento della vendita legale di armi ai privati.

Secondo i ricercatori del Brookings Institute, a partire da marzo 2020, immediatamente dopo la proclamazione da parte del presidente Donald Trump dello stato di emergenza nazionale per l’epidemia di Covid-19, si è registrato un aumento di oltre tre milioni di armi vendute rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, la metà nel solo mese di giugno in concomitanza con il peggioramento dell’epidemia e con le proteste seguite all’uccisione di George Floyd.

Un aumento (come evidenziato dal grafico qui sotto) ancora maggiore di quello registrato a seguito di tre tragiche sparatorie di massa avvenute negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni, talvolta identificate dal nome della scuola in cui sono si sono verificate: Sandy Hook a Newtown in Connecticut (14 dicembre 2012), North Park a San Bernardino in California (10 aprile 2017) e Parkland, in California, alla Marjory Stoneman Douglas (14 febbraio 2018).

Tragedie come quelle citate sono un grave problema di sanità pubblica negli Stati Uniti, il Paese dove avvengono con la più alta frequenza al mondo. Nel periodo 1999-2013 vi sono state più di 21 sparatorie di massa ogni anno con almeno quattro vittime ognuna: oltre 2000 persone negli ultimi sei anni hanno perso la vita. I soli casi avvenuti in luoghi pubblici, mass public shooting, sono stati almeno cinque per anno.

Clicca sull’immagine per accedere all’infografica interattiva.

Tecnicamente, una violenza commessa con arma da fuoco può essere definita mass public shooting solo se avviene in un luogo pubblico, conta più di quattro decessi, non vi sono relazioni parentali o di altro genere tra le vittime e l’aggressore e non vi è tentata rapina. Negli Stati Uniti, da un punto di vista puramente statistico, si tratta di eventi rari se messi a confronto con il dato generale delle morti dovute ad arma da fuoco: tra il 2009 e il 2017 sono state oltre 35.000 all’anno. Tuttavia, sono accadimenti che proprio per la loro rarità, platealità, per l’innocenza delle vittime e il contesto nel quale avvengono hanno una fortissima risonanza nell’opinione pubblica e un’ampia copertura mediatica.

Maurizio Porfiri – autore di uno studio apparso sulla rivista Patterns – è un ricercatore italiano alla Tandon School of Engineering di Brooklyn (New York) che non è arrivato a studiare il fenomeno delle sparatorie di massa per caso. Nel 2007, un anno dopo aver conseguito il dottorato all’Università della Virginia, nel laboratorio dove aveva portato a conclusione il suo percorso di specializzazione è avvenuta una sparatoria di massa in cui è morto il suo mentore. Un evento che ha portato a dare una direzione diversa alle sue ricerche sui sistemi dinamici complessi, il suo specifico campo di studi, con l’obiettivo di aiutare a capire perché avvengono questi eventi. Nello studio appena pubblicato, Porfiri analizza il ruolo delle politiche dei singoli Stati americani sulla vendita di armi a seguito di una mass public shooting.

“Precedenti ricerche hanno dimostrato, a livello nazionale, la correlazione diretta tra mass public shooting e tendenza dei cittadini americani a rifornirsi di armi. Noi siamo partiti da questa premessa per capire se questa correlazione suggerisca un meccanismo di causa-effetto tra mass public shooting e aumento nell’acquisto di armi, oppure se si tratta di un evento circostanziale” racconta a OggiScienza.

I dettagli dello studio

Lo studio ha preso in considerazione tre dati per l’arco temporale 1999-2017: il numero di mass public shooting come risulta dal database del Washington Post; il numero di articoli pubblicati da cinque testate statunitensi in luoghi diversi e con opposti orientamenti politici (Los Angeles Times, Chicago Tribune, New York Times, Times Picayune e Wall Street Journal); il numero di leggi legate al possesso e all’uso di armi da parte dei cittadini nei singoli Stati.

“Negli Stati con poca regolamentazione nell’acquisto di armi, l’aumento nella vendita sembra più legata alla paura di un restringimento nelle politiche di protezione personale” afferma Porfiri. “Tuttavia”, prosegue, “negli Stati dove già esiste una policy restrittiva, la situazione è poco chiara perché all’effetto della regolamentazione si somma la paura che possa succederci qualcosa. Quello che abbiamo cercato di capire è se esiste una risposta differenziale rispetto a questo ambiente legale. Secondo una lettura statistica, i soli mass public shooting – 87 in 18 anni – non possono da soli spiegare il motivo dell’aumento nella vendita di armi o farci capire se in uno Stato ci siano maggiori o minori episodi di violenza”.

Porfiri si aspetta molto dalla ricerca che svolgerà nei prossimi quattro anni grazie ad un grant di due milioni di dollari ricevuti dalla National Science Foundation (NSF). “Vogliamo indagare il numero di omicidi e di suicidi avvenuti con arma da fuoco ovvero il contesto in cui il nostro ragionamento sui mass public shooting va inserito”. Basti pensare che questi due fenomeni contano 40.000 decessi all’anno, un numero impressionante: “Una strage, di per sé, non spiega il numero di pistole vendute, né nello Stato in cui succede né in quello vicino” afferma Porfiri.

Tuttavia, in questo ultimo studio il ricercatore italiano e i suoi colleghi hanno rilevato come vi sia una sorta di concertazione tra i vari Stati poiché l’aumento nella vendita di armi di uno Stato influisce sulle vendite di quello geograficamente confinante, indipendentemente dall’allineamento politico. “C’è un fenomeno collettivo alla base per l’acquisto di pistole che noi in futuro vogliamo studiare” continua Porfiri. “È un argomento poco studiato perché è spinoso e con tante problematiche strutturali”. Il riferimento va al Dickey Amendment che per tanti anni ha impedito il finanziamento della ricerca scientifica dei National Institute of Healt (NIH) sul tema della violenza privata legate alle armi. “A differenza di alcool e tabacco, che sono problemi di salute pubblica e hanno ottenuto molti finanziamenti” conclude Porfiri, “per le armi la situazione è molto diversa: i finanziamenti non ci sono stati. Soltanto di recente sembra che le cose stiano un po’ cambiando, in meglio”.


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Federica Lavarini
Dopo aver conseguito la laurea in Lettere moderne, ho frequentato il master in Comunicazione della Scienza "Franco Prattico" alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste (SISSA). Sono giornalista pubblicista e scrivo, o ho scritto, su OggiScienza, Wired, La Lettura del Corriere della Sera, Rivista Micron, Il Bo Live, la Repubblica, Scienza in Rete.