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Pesca: il paradosso delle esportazioni dai paesi poveri

Secondo una recente analisi apparsa su Science denutrizione e bassa capacità di governance sono le caratteristiche dei maggiori esportatori di pesci, astici e gamberetti che arrivano sulle nostre tavole

IL CORRIERE DELLA SERRA – I prodotti del mare, siano essi pesci o invertebrati (crostacei o molluschi), contribuiscono per il 15% del consumo di proteine animali di 2.9 bilioni di persone, valore che raggiunge il 50% se consideriamo solo gli stati africani occidentali e alcuni piccoli arcipelaghi. È quanto emerge dal rapporto della FAO del 2009. Ma non è tutto, essi rappresentano il prodotto di maggior esportazione delle nazioni in via di sviluppo, superando di gran lunga il valore dell’insieme di altri prodotti quali caffè, cacao, thè, tabacco e riso. Si pensi che nel 2006 la pesca e l’acquacoltura rappresentavano una fonte di lavoro per 4.3 milioni di persone mentre qualcosa come 520 milioni di persone dipendevano dalle entrate determinate dalla produzione di questi prodotti.

Sembrerebbe una buona notizia, ma non è tutto oro quel che luccica. Secondo uno studio pubblicato su Science il 16 febbraio scorso, con l’eccezione dei 3 maggiori esportatori (Cina, Norvegia e Cile), i prodotti di mare ‘migrano’ dalle acque delle nazioni caratterizzate da malnutrizione e da una bassa capacità di governance (appartenenti in primis al continente asiatico) – per governance si intende il controllo amministrativo sul territorio condotto dalle istituzioni di un paese – verso le tavole delle nazioni ben nutrite e ad alta governance (Stati Uniti, Europa, Giappone).  Paradossalmente, le condizioni prevalenti del mercato internazionale rendono più redditizio per le nazioni più povere esportare i propri prodotti di alto valore e importare prodotti di poca qualità, generando un valore aggiunto da spendere in beni e servizi, piuttosto che utilizzare questi prodotti per risolvere le proprie carenze alimentari nazionali.

A differenza dei prodotti agricoli, la sostenibilità di pesca e acquacoltura dipende strettamente dalla gestione del proprio ecosistema: una pesca eccessiva può portare all’impoverimento degli stock e diventare insostenibile, come lo può diventare un’acquacoltura gestita in maniera non assennata.

Lo studio pubblicato su Science evidenzia come la diffusa mancanza di governance delle nazioni esportatrici di prodotti di mare determini scarsi controlli sul bycatch (organismi marini di vario genere, come delfini e tartarughe, che finiscono erroneamente nelle reti e che quindi vengono uccisi senza alcuno scopo commerciale) e sull’overfishing (pesca smodata che depaupera le risorse marine di un’area), con conseguenze nefaste per l’ambiente da un lato e problemi di corruzione dirigenziale che vanno a scapito della fascia più povera della popolazione dall’altro. Emerge inoltre come in queste nazioni la gestione dei tratti di mare costieri atti alla pesca e all’acquacoltura dipende dall’auto-organizzazione della comunità che vi accede, auto-organizzazione che risulta in evidente empasse davanti alla forza del mercato internazionale. Ne risulta una mancata attenzione per le regole del commercio dettate dal WTO (World Trade Organization) e una sostanziale impossibilità di premiare esperienze di buona governance del prodotto (in termini di sostenibilità ambientale e di diritti umani).

La soluzione identificata dagli autori è lo sviluppo di sistemi di autocertificazione locale dell’export. Ma il successo di una simile ipotesi dipende dalla volontà del consumatore di pagare un prezzo più alto per un prodotto ‘sostenibile’, finanziando in qualche modo in prima persona i costi di una gestione sostenibile, di un miglior equipaggiamento (ad es. reti da pesca ‘tecnologiche’) nonché di infrastrutture ‘sane’ che supportino tutto il percorso di esportazione. Se i consumatori sono pronti per questa operazione è cosa ancora da discutere.

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