AMBIENTE

Capodogli: l’autopsia scagiona le buste di plastica

Lo sguardo è di chi fa il lavoro per cui è nato, “anche se – sottolinea con ironia – vedo solo animali morti”. Sandro Mazzariol, classe 1976, nato a Venezia, è patologo all’Università di Padova e membro della task force ministeriale di pronto intervento in caso di spiaggiamento di cetacei. Lo abbiamo incontrato all’Acquario Civico di Milano alla conferenza “Balene alla deriva.

OS: A dicembre eri in Puglia dove sette capodogli si sono spiaggiati per cause su cui state ancora indagando. Ci racconti lo scenario che ti sei trovato davanti quel 11 dicembre?

SM: Siamo arrivati a Foce Varano alla sera e ricordo il freddo, il nevischio, il vento e una scena come non mi era mai accaduto di vedere. Quattro capodogli spinti a riva dalla forza del mare già morti e altri tre spiaggiati ma ancora vivi, sparsi lungo quattro chilometri di litorale sabbioso.

OS: Cosa avete fatto?

SM: Sembrerà strano ma all’inizio nulla. Abbiamo dovuto prendere del tempo per decidere il da farsi davanti ad un evento eccezionale. Gli animali ancora vivi non si potevano salvare, questo è importante che si sappia. Erano già passate molte ore dal loro spiaggiamento, erano schiacciati dal peso stesso dei loro corpi e non avevamo i mezzi necessari per trainarli in acqua in condizioni di sicurezza, sia per gli animali ma soprattutto per gli uomini. Sulla spiaggia c’erano 120 tonnellate di carne, muscoli e ossa.

OS: Salvare i capodogli era impossibile, rimaneva però la questione di capire cosa fosse successo…

SM: Eravamo lì apposta. Volevamo raccogliere più dati possibile per indagare le cause dello spiaggiamento ma anche mantenere la memoria dell’evento, testimoniando con le immagini quello che stava accadendo. È stato incredibile vedere trenta persone di tre diverse università italiane e una spagnola collaborare per eseguire le necroscopie e raccogliere materiale per le analisi. Le operazioni sono iniziate dopo 48 ore e abbiamo raccolto campioni dai tre animali spiaggiati vivi che sono morti poche ore dopo davanti ai nostri occhi e a quelli della folla accorsa per vedere le “balene”!

OS: Cosa sappiamo dei sette capodogli?

SM: Erano tutti maschi di età compresa tra i 15 e i 25 anni. Nessuno era sessualmente maturo, erano giovani quindi e questo aggrava ciò che è accaduto. Due venivano regolarmente avvistati in Mar Ligure dai biologi che lavorano in quella zona durante la stagione estiva, un altro in Mar Egeo. Sappiamo che questi animali si spostano in tutto il bacino mediterraneo ma la loro presenza in Adriatico è accidentale. Inoltre sappiamo che erano a digiuno da parecchi giorni perché i loro stomaci erano vuoti e questo potrà aiutarci ad avere un quadro della situazione più dettagliato.

OS: Avete raccolto dati e campioni da tre animali su sette. Che tipo di analisi sono state condotte?

SM: Tutto ciò che era possibile tenendo conto che lavorare con animali così grossi in quelle condizioni era davvero difficile, basti pensare che per raggiungere il cervello è necessario perforare trenta centimetri di osso. In questi mesi abbiamo fatto esami biologici e microbiologici per verificare la presenza di virus; volevamo scartare l’ipotesi di una epidemia come quella di morbillivirus che negli anni novanta ha causato la morte di centinaia di stenelle. I nostri risultati hanno escluso la presenza di forme virali. Gli esami tossicologici sono stati eseguiti solo parzialmente perché molto costosi e il nostro budget è ridotto.

OS: Avevate quindi  il sospetto che “il colpevole” fosse una sostanza inquinante?

SM: In passato la causa di certi spiaggiamenti era stata individuata in particolari alghe che producono biotossine. Senza dimenticare il mercurio, ma al momento, alla luce di quello che sappiamo, lo escluderei. Però gli esami sul fegato sono stati sorprendenti.

OS: Che cosa avete scoperto?

SM: In laboratorio abbiamo somministrato fegato dei capodogli ai topi e a piccoli pesci, le gambusie. Abbiamo osservato un significativo stato di alterazione della condizione fisica dei topi mentre le gambusie beh… sono letteralmente impazzite. Analizzandole, abbiamo capito che c’era un’inibizione dell’acetilcolinesterasi che è un importante neurotrasmettitore. Insomma i capodogli erano immunodepressi: secondo gli esami istologici alcuni neuroni erano in parte degenerati. La causa potrebbe essere quindi una sostanza che produca un danno neuronale. Mi sento di dire che saremo in grado di fare un’ipotesi che disegna un contorno preciso intorno alla verità.

OS: Anche i sonar subacquei erano indicati tra le possibili cause…

SM: Sicuramente i capodogli sono tra gli animali più sensibili al rumore subacqueo ma sull’ ipotesi sonar non possiamo davvero dire niente. Era necessario analizzare immediatamente il cervello e l’orecchio (gli organi che vengono maggiormente danneggiati dall’azione dei sonar) ma come dicevo arrivare al cervello di questi animali, nelle condizioni ambientali in cui eravamo, è davvero un’operazione complicata.

OS: I media italiani hanno puntato il dito contro la plastica trovata negli stomaci degli animali. È un’ipotesi plausibile?

SM: Non in questo caso. Sono d’accordo con il denunciare il fatto che nei nostri mari finiscano rifiuti di ogni genere ma i capodogli pugliesi non sono stati uccisi della plastica. La plastica uccide questi animali quando ne ostruisce il tratto digerente o causa delle lesioni, ma noi non abbiamo visto nulla di simile. I colleghi americani riferiscono di aver trovato carcasse di cetacei con 80 chilogrammi di plastica nello stomaco, mentre gli esemplari pugliesi ne avevano al massimo un solo chilo.

OS: Dall’inizio dell’anno si sono spiaggiati lungo le coste italiane altri tre capodogli e una balenottera minore che è rarissima nei nostri mari. Quanto è servita l’esperienza pugliese per gli scienziati e per i decisori politici per capire il da farsi in questi casi?

SM: Lavoriamo ancora a bassissimo budget ma la politica si è accorta di un problema che prima ignorava. Per la comunità scientifica conta moltissimo e ne sono contento. Prima nessuno sapeva come gestire questi casi mentre ora stiamo lavorando tutti insieme alla preparazione di protocolli d’intervento coinvolgendo veterinari, biologi e anche esperti di bioetica. Le questioni aperte sono tante. Una su tutte: se (e in che modo) far ricorso all’eutanasia, per evitare agli animali inutili sofferenze.

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