IN EVIDENZA

Che fine ha fatto il buco dell’ozono?

25 anni dopo la sua scoperta si può cantar vittoria. La tempestiva messa al bando dei clorofluorocarburi (CFC) ha sventato il disastro ambientale. Risultato: la ferita nell’atmosfera si sta cicatrizzando. Perché non si riesce a fare lo stesso per i cambiamenti climatici?

IL CORRIERE DELLA SERRA – Quella del buco dell’ozono è una storia a lieto fine che oggi sembra una favola. Nel 1985, tre scienziati di nome Joseph Farman, Brian Gardiner e Jonathan Shanklin, impegnati nelle ricerche meteorologiche in Antartide del British Antartic Survey, diedero al mondo una notizia shock. Nell’atmosfera che avvolge la Terra si stava aprendo un enorme squarcio. Colpa –  spiegarono in un articolo pubblicato sulla rivista Nature – dei clorofluorocarburi (CFC), gas utilizzati nelle bombolette spray (per esempio, prodotti per capelli, disinfettanti, vernici ecc) e nei sistemi di refrigerazione (frigoriferi e condizionatori). L’accumulo di queste sostanze, inventate negli anni Venti, stava assottigliando drammaticamente lo strato protettivo di ozono che blocca oltre il 90% dei pericolosi raggi solari. Il buco dell’ozono era già grande come un continente sopra l’Antartide e si andava allargando anno dopo anno. Senza questa pellicola, l’umanità avrebbe rischiato di “friggere” sotto le radiazioni ultraviolette, sarebbero aumentati tumori della pelle e cataratta, pesci, granchi, rane e altri animali avrebbero avuto problemi riproduttivi e l’intero ecosistema del pianeta avrebbe subito gravi conseguenze.

I tre scienziati non vennero tacciati di catastrofismo. Scattò uno stato di allerta globale che due anni dopo, nel 1987, convinse tutti i capi di stato delle Nazioni Unite a siglare il Protocollo di Montreal che mise al bando i dannosissimi CFC. È stato il primo trattato dell’Onu a ottenere la ratifica universale. I CFC oltre a corrodere l’ozono (O3), rompendo i legami chimici di questa instabile molecola, erano anche gas a effetto serra. “Per una felice circostanza, il trattato di Montreal ha fatto di più per ridurre le emissioni inquinanti nell’atmosfera del protocollo di Kyoto”, ha scritto questa settimana su Nature Jonathan Shanklin, uno dei “padri” del buco dell’ozono.

La bella notizia è che, 23 anni dopo quel trattato, la ferita nell’atmosfera provocata dai CFC si sta cicatrizzando. La guarigione completa sembra imminente, probabilmente nel 2080 il buco dell’ozono sarà stato completamente rattoppato. Senza quel provvedimento, l’assottigliamento dello strato di ozono si sarebbe allargato a macchia d’olio e interesserebbe buona parte del pianeta, con conseguenze disastrose per la salute e l’ambiente. Cosa che forse tra 50 o 100 anni non potremmo dire riguardo agli effetti dei cambiamenti climatici. Perché il trionfo del Protocollol di Montreal è così difficile da replicare per arginare i danni del riscaldamento globale?

“Vari fattori contribuirono al raggiungimento dell’accordo internazionale. L’industria chimica manifatturiera, dopo qualche resistenza iniziale, fu in grado di creare sostituiti per i CFC a costi contenuti. La gente reclamava azioni immediate: le evidenze erano forti e chiare, il buco appariva minaccioso e c’era un legame tra l’assottigliamento dell’ozono e il cancro”, analizza lo scienziato, a capo dell’Unità di meteorologia e di monitoraggio dell’ozono della British Antartic Survey. “Era venuto a galla un problema ed era percepito come grave,  ma nessuno stava dicendo alla gente che avrebbe dovuto cambiare vita per risolverlo. Al contrario, l’azione antropica sui cambiamenti climatici è meno chiara e le persone hanno l’impressione che la civiltà collasserà se non si decideranno ad abbandonare le automobili e cambiare radicalmente stile di vita. Non è sorprendente che ci sia confusione e resistenza”

La soluzione ai cambiamenti climatici è più complessa e richiede un approccio integrato diverso. Ma c’è una lezione che la storia del buco dell’ozono ci lascia. “Quanto rapidamente può cambiare il nostro pianeta”, conclude Shanklin. Considerata la velocità con cui l’umanità può impattare sull’ambiente, adottare il principio di precauzione è con tutta probabilità la strada più sicura per la prosperità futura”.

Condividi su