ECONOMIA

L’università sull’orlo della paralisi

Decine di migliaia di ricercatori minacciano di incrociare le braccia e non tenere più lezioni ed esami agli studenti per protestare contro la riforma del governo. Atenei in tilt.

CRISI – Il clima è rovente negli atenei italiani, e non per colpa del gran caldo degli ultimi giorni. Divampa la protesta dei ricercatori contro la riforma universitaria firmata dal ministro Gelmini, che ormai vola verso l’approvazione definitiva nel suo iter parlamentare. L’incendio che sta infiammando le aule universitarie d’Italia, da Trieste a Bari, da Torino a Palermo, passando per Milano, Bologna, Siena, Firenze, Roma, L’Aquila, Ancora, Napoli, Cagliari e molte altre città (qui la mappa completa della mobilitazione e qui l’elenco delle università) rischia di mandare al rogo la programmazione del prossimo anno accademico.

Sono già decine di migliaia i ricercatori che si sono dichiarati indisponibili alla didattica non obbligatoria per legge. Secondo le stime della Rete 29 aprile,  l’anima del movimento, circa due terzi dei 25.000 ricercatori italiani (intesi come inquadramento di livello più basso nella carriera accademica, sotto la qualifica dei professori di ruolo) sono pronti a smettere di fare lezione e di tenere gli esami agli studenti. Incarichi di docenza, questi, a cui i ricercatori non sono tenuti, ma che svolgono abitualmente per passione, per maturare esperienza in vista di dell’agognato posto da professore, per sopperire alle carenze strutturali degli atenei.

“Faremo soltanto ricerca ed esercitazioni, come prevede il nostro contratto”, minacciano i ricercatori che hanno raccolto il sostegno anche di 2mila professori. Sperano in questo modo di indurre il governo a riconsiderare i provvedimenti di una riforma che giudicano deleteria per il sistema universitario e per il loro stesso futuro. Molti i punti contestati.  A cominciare dai tagli dei finanziamenti all’università, che passerebbero  da 7,49 miliardi di euro a 6,05 miliardi tra il 2009 e il 2012, con una riduzione del 19%. Protestano, i ricercatori, per il blocco del turn-over, che permetterebbe l’assunzione di una persona ogni cinque che se ne vanno per i prossimi tre anni; protestano per le decurtazioni dello stipendio (con mancati aumenti in busta paga per i ricercatori che iniziano la carriera del 32,7%); per la progressiva estinzione della figura di ricercatori a tempo indeterminato e l’introduzione di contratti a tempo determinato da ricercatore 3+3 (tre anni rinnovabili per altri tre) senza nessuna garanzia di future assunzioni: dopo sei anni da precari, i ricercatore si troverebbero inseriti in una lista di abilitazione per diventare di ruolo, in base alle valutazioni di un comitato di esperti. Ma il timore è che molti si ritrovino a piedi e costretti a emigrare all’estero.

La lista dei malcontenti è lunga e vano sembra il tentativo del ministro Gelmini di dipingere la manovra come un intervento necessario contro gli sprechi e a favore della meritocrazia e dell’internazionalizzazione dell’università. Molti concordano che una riforma sia necessaria. Pochi però credono che la strada intrapresa sia quella giusta.

Se il Ddl non verrà modificato, le conseguenze della decisione dei ricercatori di incrociare le braccia si annunciano pesanti, come scrive allarmata anche la rivista Nature. A settembre moltissime facoltà potrebbero trovarsi di fatto paralizzate. Non è esclusa l’eventualità che il blocco costringa i senati accademici a sospendere le immatricolazioni nell’impossibilità di formulare l’offerta formativa. Interi corsi e sessioni d’esame potrebbero saltare. Già adesso, all’Università di Roma la Sapienza, gli studenti stanno sperimentando gli effetti della protesta.

Dal 13 luglio, i docenti della Facoltà di Lettere dell’ateneo capitolino hanno deciso di tenere gli esami di notte, dal tramonto all’alba, “per protestare contro il buio che i tagli del governo vogliono far calare sulla ricerca e sulla didattica”. L’orario di appello va dalle 21.00 alle 5.00. “È un ordine temporale inusuale ma fedele all’inversione di senso cui sembrano orientati i provvedimenti del governo in materia di università. Siamo professori ombra, oscurati e delegittimati nella sostanza qualitativa e quantitativa del proprio impegno quotidiano”, denunciano i ricercatori.

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