ECONOMIA

Questa riforma non s’ha da fare

La voce di un decano che ha sposato la causa dei giovani ricercatori: “Costretti a una trafila infernale, sprecano i loro anni migliori. Abbiamo presentato alla Gelmini una controproposta di riforma. Ma il ministro non ci ha ascoltati”. Intervista a Claudio Procesi, professore sulle barricate.

CRISI – “Ho passato la vita dentro l’università. È penoso stare a guardare mentre va allo sfascio senza almeno provare a reagire”. Claudio Procesi, 69 anni, professore di algebra all’Università di Roma La Sapienza, è in prima linea nella protesta dei ricercatori contro i tagli e i provvedimenti della riforma Gelmini. Non si batte certo per difendere il posto. La sua carriera l’ha bella che fatta: accademico dei Lincei, vicepresidente dell’Unione internazionale di matematica, è tra i matematici più noti al mondo. Tra un anno andrà in pensione. Potrebbe chiudere gli occhi e infischiarsene del destino fosco degli atenei, dei ricercatori precari e disperati, dell’istruzione che viene squalificata, della meritocrazia sbandierata a parole e negata nei fatti. Procesi, invece, ha deciso di adoperarsi per le sorti del mondo accademico. Appoggia la mobilitazione dei ricercatori, come altri duemila professori, e ha creato un movimento, Universitas Futura, che riunisce docenti e accademici per valutare le possibili trasformazioni dell’università. “Lo faccio perché credo nel futuro della scienza, della cultura e della ricerca”.

Professore, perché è sceso in campo dalla parte dei ricercatori?

La riforma, così come è stata formulata, è una follia. Rischia di gettare gli atenei nel caos, come è successo negli anni Settanta. Il punto più grave è il provvedimento che si propone di portare all’estinzione la figura dei ricercatori, 25 mila in Italia, scimmiottando il modello meritocratico anglossassone, detto “tenure-track”. Nel sistema anglosassone, l’università si assume l’impegno di trasformare a tempo indeterminato un ricercatore con contratto 3+3 in base al raggiungimento di determinati obiettivi di produttività. Se il ricercatore ha operato bene, viene automaticamente trasformato in professore di ruolo. La riforma della Gelmini vorrebbe imitare questo sistema, creando due sole fasce di docenza, senza riconoscere la  professionalità degli attuali ricercatori e  senza una  garanzia  per i  giovani assegnisti di venire valutati e  quindi  assunti in base ai loro meriti.

Con quali conseguenze?

Si verrebbe a creare un listone di precari, parcheggiati in un limbo sempre più affollato di aspiranti professori e disoccupati di fatto. Nelle facoltà si scatenerebbero lotte intestine per assumere quello o quell’altro, passerebbero mesi prima di decidere chi sarà il fortunato e molti ottimi candidati in lista d’attesa potrebbero essere scartati e preferiti ad altri, secondo opinabili criteri, per mancanza di posti e di regole. Sarebbe il caos. Ma non solo. Per star dietro a questo sistema perverso, i ricercatori perderebbero i loro anni migliori. A 30 anni si fanno le migliori scoperte scientifiche, non a  50.

Non suona meritocratico.

Non lo è. L’università resterebbe in mano ai mediocri che, non trovando di meglio, potrebbero sopportare questa trafila infinita per un posto fisso, o ai raccomandati che passerebbero per la corsia preferenziale. I migliori cervelli se ne andranno all’estero e tanti altri preferiranno investire diversamente le proprie competenze anziché dedicarsi alla poco promettente carriera universitaria.

Ha una proposta alternativa per la riforma universitaria?

Quando fu emanato il ddl della Gelmini io e altri colleghi abbiamo formulato una proposta di trasformazione del sistema universitaro, sottoscritta da 1400 docenti e sottoposta all’attenzione del ministro.

E…?

La Gelmini non ci ha preso in considerazione, è andata dritta per la sua strada. Questa riforma è stata fatta senza ascoltare le forze degli atenei, in combutta con i rettori, che sono espressione del corporativismo e spesso non hanno alle spalle una carriera scientifica ma politica. Ma vorrei aggiungere anche un’altra cosa.

Dica.

Siamo scienziati, non politici. Eppure, oltre all’attività di docenza, ricerca, convegni, pubblicazioni scientifiche e altro,  dobbiamo trovare il tempo, con mille sacrifici, di formulare riforme e organizzare movimenti pur di scongiurare provvedimenti disastrosi per l’università. Senza neppure essere ascoltati.

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