ECONOMIA

Batteri buoni per le api

ECONOMIA – Ma anche per piante, monumenti e in futuro chissà… Uno spin-off dell’Università di Milano propone l’uso di microbi per risolvere problemi agro-ambientali, e non solo. Il primo prodotto? Un probiotico per l’alveare.

Avete presente i probiotici? Sono quei batteri – bifidobatteri e lattobacilli, tanto per fare i nomi dei più comuni – che assumiamo da soli (i cari vecchi “fermenti lattici”) oppure aggiunti a yogurt o altri alimenti per ristabilire l’equilibrio della nostra flora batterica intestinale e, in generale, rafforzare il sistema immunitario. Di solito ne facciamo largo uso dopo aver sofferto di diarrea (o per prevenirla, durante un viaggio esotico) oppure durante una terapia antibiotica. Ecco: ora anche le api hanno il loro probiotico, per combattere batteri patogeni e stimolare le difese immunitarie. Si chiama Micro4Bee ed è il primo prodotto di un nuovo spin-off dell’Università di Milano: Micro4You, cioè “il batterio per le tue esigenze”, fondato da sei soci tra docenti, ricercatori ed ex collaboratori del gruppo di ricerca guidato dai microbiologi ambientali Daniele Daffonchio e Sara Borin .

“L’idea generale è semplice: sviluppare, produrre e commercializzare prodotti fatti di microrganismi, che possano risolvere alcuni problemi pratici in ambito agro-alimentare e ambientale”, spiega Annalisa Balloi, assegnista di ricerca nel laboratorio di Daffonchio e amministratore delegato della società. Il primo obiettivo di lavoro, dunque, sono state le api: “Da una decina d’anni in Italia e nel mondo si sta verificando un’ingente morìa di questi insetti, che ha causato e causa gravi ripercussioni economiche sia al settore apistico sia all’interno comparto agroalimentare”, afferma Balloi. “In gioco ci sono diversi fattori, e una è la diffusione di patologie batteriche e virali”. Così, Balloi e colleghi sono partiti alla ricerca di batteri buoni che potessero aiutare le api a difendersi almeno da alcuni nemici.

Per prima cosa hanno confrontato api (larve e individui adulti) ‘sane’ e api affette da una particolare patologia batterica chiamata peste americana, scoprendo che nell’intestino delle api sane c’erano alcuni batteri assenti in quelle malate. Poi hanno preso altre larve, tutte sane: alcune sono state alimentate con una dieta zuccherina arricchita da una certa miscela di batteri ‘buoni’ e altre solo con dieta zuccherina. Infine, tutte sono state esposte al batterio patogeno. Risultato: quelle che avevano ricevuto il mix buono si sono ammalate molto meno delle altre. “A questo punto, abbiamo deciso di non pubblicare i risultati ottenuti, ma di proteggerli con un brevetto”. Ed è iniziata così l’avventura di Micro4You.

La fase al momento è quella della registrazione presso la Commissione europea, step necessario per la commercializzazione: si tratta di redigere un dossier che contenga informazioni su efficacia e sicurezza (per gli animali, l’ambiente e l’uomo) del prodotto, da sottoporre alle autorità competenti per l’approvazione. “Pensiamo ci vorrà un annetto prima di arrivare a vendere Micro4Bee”, precisa Balloi. “Molte richieste, però, ci sono già arrivate. Gli apicoltori non hanno a disposizione grandi mezzi per proteggere i loro alveari, e il nostro mix batterico li incuriosisce molto”. Anche perché sembra che il prodotto non presenti grandi complicazioni. “I batteri che costituiscono il probiotico non sono geneticamente modificati”, tiene a precisare la ricercatrice, “e, dalle prove che stiamo eseguendo, non risulta alcun impatto ambientale”. Una volta pronto, il prodotto potrà essere spruzzato sugli alveari, oppure mischiato a pappe e sciroppi che periodicamente gli allevatori forniscono ai loro insetti.

In attesa dei batteri buoni per le api, Balloi e colleghi si stanno muovendo anche in altre direzioni: “Lavoriamo allo sviluppo di miscele batteriche che possano essere di sostegno a piante di interesse agrario in momenti di crisi, per esempio durante siccità”. Non solo: Micro4You sta già procedendo alla campagna acquisti e in ballo c’è l’acquisizione di un brevetto sviluppato alcuni anni fa da un altro gruppo di ricerca dell’università milanese, guidato da Francesca Cappitelli. I batteri di Cappittelli e colleghi non lavorano in ambito agrario, ma artistico e architettonico. Sono infatti in grado di rimuovere le “croste nere” e altre alterazioni che possono interessare opere d’arte e monumenti lapidei, senza interagire con i materiali originali. “Il sistema più collaudato è quello che permette di rimuovere le incrostazioni nerastre che si formano, per effetto dell’inquinamento, su marmi e calcari”, spiega Andrea Polo, dottorando di ricerca nel gruppo di Cappittelli. “Si tratta in genere di croste fatte di solfati e particellato atmosferico. I batteri – scelti in modo specifico a seconda del substrato e del tipo di alterazione – utilizzano queste sostanze per reazioni chimiche del loro metabolismo, degradandole e liberando in atmosfera sostanze relativamente innocue (alle basse quantità di cui stiamo parlando), come acido solfidrico, anidride carbonica e azoto”. Anche in questo caso il meccanismo operativo è semplice: basta avvolgere la parte interessata in una sorta di “sudario” imbevuto dei batteri adatti, aspettare poche ore et voilà, il gioco è fatto. Rimosso il sudario, il monumento torna pulito. “Ma attenzione: la cosiddetta “patina nobile”, una patina dovuta al naturale invecchiamento dei materiali, rimane. E questo è considerato un valore aggiunto da restauratori e conservatori”, precisa Polo.

Il sistema, si diceva, è stato brevettato già da alcuni anni, ed è già stato provato con successo su monumenti decisamente importanti, come il Duomo di Milano, la Pietà Rondanini di Michelangelo o la cattedrale di Matera. Però non è conosciutissimo, neppure tra gli esperti del settore. “Ed è qui che entra in gioco micro4You”, afferma Balloi. “Vogliamo far conoscere e diffondere questo tipo di prodotti. Del resto l’Università fa ricerca, ma non può fare anche sviluppo commerciale e industriale”. A questo ci penserà lo spin-off, con l’aiuto, possibilmente, di qualche partner commerciale e di qualche finanziatore. “Li stiamo cercando, ma non è semplice. All’estero si è molto più portati a rischiare, mentre da noi i potenziali finanziatori vogliano sentirsi assolutamente sicuri”. Anche questo, però, è un rischio. Quello di sprecare il tempo e il lavoro dei ricercatori, e di lasciare in un cassetto prodotti (o almeno prototipi) potenzialmente molto efficaci.

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance