CRONACA

Un sussulto di dignità

3000 ricercatori dell’Università italiana decidono di sospendere l’attività didattica, come gesto di protesta ai pesanti tagli previsti dalla riforma dell’assetto universitario. Se n’è discusso stamattina in un’assemblea pubblica all’Università di Trieste

NOTIZIE – Il fatto: 98 ricercatori dell’Università di Trieste hanno aderito alla sospensione dell’insegnamento “frontale” i corrispondenza dell’imminente ripresa del calendario universitario di quest’anno. Alla riunione (presumibilmente ancora in corso mentre scrivo) convocata dalla “Rete 29 aprile”, erano presenti circa 150 persone, fra studenti, ricercatori e docenti (c’era persino qualche ordinario), e cosa non scontata, il rettore Francesco Peroni.

La legge di riforma dell’assetto universitario proposta dal ministro Gelmini prevede tagli pesantissimi ai bilanci universitari (che già prima non versavano in condizioni rosee). Nel complesso si parla del 18% in meno di finanziamenti pubblici (circa 1.350.000 euro). La riforma è controversa, e, secondo le stesse parole di Peroni “c’è concordia assoluta nel giudicare i tagli eccessivi”.

Almeno su qualcosa il mondo accademico (e tutta la costellazione che vi gravita intorno) sembra essere d’accordo. Ma poi come sempre accade nel nostro individualista paese, tutto si sfuma in mille rivoli d’opinione e un’azione comune resta spesso un miraggio. Quest’ultima provocazione (molto più di una provocazione, a dire il vero) è un segnale forte, c’è da sperare che venga accolta da molti più dei 3.000 che fino ad oggi hanno aderito a livello nazionale (che non sono comunque pochi a fronte di un corpo docente intorno ai 19.000 individui).

Non è una decisione facile, quella presa dai ricercatori “disobbedienti”. “Fra i molti che abbiamo coinvolto in questa difficile impresa, conosco tanti che si sentono letteralmente male fisicamente a non insegnare, tanto conta per loro la missione di docenti,” ha spiegato Daniele Andreozzi, ricercatore presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Trieste e docente della stessa facoltà, che qui a parlato a nome della Rete 29 aprile. “Noi non siamo fuori dall’istituzione, se prendiamo decisioni così radicali è perché la amiamo questa istituzione, l’Università, e amiamo il nostro lavoro di ricercatori e insegnanti”.

Quello che si percepiva stamattina nella sala degli atti della facoltà di scienze politiche era proprio una densa, profonda preoccupazione, non per il destino dei singoli ricercatori, studenti, dottorandi, docenti (che pur conta) ma per l’Università stessa.

“Agire adesso o mai più” si è sentito dire spesso stamattina, perché se questa riforma va avanti così, l’Università rischia a uno stop fattuale di almeno 10-15 anni.  Il rettore, nella sua veste istituzionale è sembrato, a tratti, sconfortato. La posizione ufficiale dell’ateneo triestino è quella di sostegno ai docenti dissidenti, “purché si resti nel rispetto dei doveri democratici”.

Cosa si intenda con questa frase non è però chiarissimo. Il dovere dell’Università è quello di istruire, e in questo senso la sospensione della didattica formale è già di per se “fuori legge”. Dunque? Sempre Andreozzi fa notare che il più delle volte l’insegnamento all’università è demandato ai ricercatori che, lo dice la parola stessa, dovrebbero far ricerca, ma non è altrettanto detto che debbano per forza insegnare. In  Italia l’uso è diventato ormai una consuetudine acquisita, dunque anche un dovere? Tanto più che qualche fortunato ha pure un contratto che sancisce l’assegnamento di un dato corso e una retribuzione relativa, ma sono anche molti i ricercatori che lo fanno gratuitamente. E come se non bastasse, dall’altro lato, non sono pochi i casi di docenti di ruolo che di fatto non fanno alcuna attività didattica pur essendo pagati (e non certamente per motivi ideologici).

L’impressione è che il rettore si trovi in difficoltà: la causa dei ricercatori è di fatto la sua causa, e cioè quella di fare tutto il possibile perché l’Università non diventi “una scatolina” vuota da offrire agli studenti, ma di fatto dalla sua posizione istituzionale non si spinge a sostenere per intero la gravosa responsabilità che i ricercatori “indisponibili” si stanno prendendo.

Non ho potuto scacciare un pensiero davvero fastidioso, e che cioè alla fine le istituzioni lascino sempre capra e cavoli alla buona volontà degli individui, sperando di fregiarsi dei meriti in caso di vittoria, e cavandosi fuori in caso di sconfitta. Spunto per questa riflessione è anche un altro argomento emerso durante la discussione di stamattina: è compito degli altri docenti denunciare i (non rari, e ovviamente da rintracciare fra i docenti di ruolo, gli unici che se lo possono permettere) colleghi nullafacenti? Il rettore su questo a un certo punto è sembrato davvero abbattuto. Di fronte all’evidente volontà dei più a non fare da delatori di questi odiosi comportamenti, Peroni ha lanciato una vera  propria richiesta di aiuto “l’Università è una macchina di cui tutti facciamo parte. Se non mi aiutate denunciando queste situazioni, io ho le mani legate.”

L’argomento fannulloni tutto sommato è marginale rispetto alla questione discussa oggi (ma vi ha trovato ampio spazio), eppure l’ho trovato significativo: l’istituzione chiede ai singoli di farsi carico di una responsabilità di controllo che dovrebbe essere dell’Università stessa.

Concordo con Peroni che abbiamo a che fare con un malcostume tutto italiano e cioè quello di tollerare come normale (non giusto, ovviamente) il fatto che alcuni tentino “fregare” la comunità. Chi pur giudicando negativamente tali comportamenti tende lo stesso percepire come  “delazione” quello che altrove sarebbe una sacrosanta denuncia, e così non dovrebbe essere (provate a fare i furbi in un paese scandinavo, e vedete un po’ cosa succede). Non credo che però la soluzione stia nel delegare agli individui un compito che dovrebbe essere istituzionale. L’istituzione dovrebbe condurre un controllo stretto per evitare questo tipo di situazioni, ma ancor prima creare un ambiente in cui denunciare certe “furbate” siano percepito come cosa normale e non come “fare la spia”.

Come al solito lancio la palla ai lettori e aspetto opinioni (soprattutto sulla riforma e sull’azione dei ricercatori).

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Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa è laureata in Psicologia con un dottorato in percezione visiva ottenuto all'Università di Trieste. Dopo l'università, ha ottenuto il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. Da qui varie esperienze lavorative, fra le quali addetta all'ufficio comunicazione del science centre Immaginario Scientifico di Trieste e oggi nell'area comunicazione di SISSA Medialab. Come giornalista free lance collabora con alcune testate come Le Scienze e Mente & Cervello.