CRONACA

Cosa può fare un po’ di arsenico

NOTIZIE – Quello dei batteri all’arsenico della NASA mi sembra un case-study degno di interesse, sia per quanto riguarda la comunicazione pubblica della scienza, sia per quel che riguarda i processi di validazione dei risultati scientifici. La pubblicazione oggi di un documento di risposta alle critiche da parte degli autori mi da l’occasione di riparlarne.

Riassumo brevemente i fatti: la NASA, qualche giorno fa anticipa la presentazione pubblica dei dati di una ricerca dicendo che sarà l’occasione “di discutere una scoperta nel campo dell’astrobiologia che avrà un impatto sulla ricerca di vita extraterrestre.”

Il 2 dicembre la scoperta viene resa pubblica durante una conferenza stampa e no, non si trattava di nessuna creatura aliena. La notizia però risulta comunque strabiliante: nel lago Mono in California sarebbe stato individuato un batterio con una biochimica diversa da quella universalmente diffusa, un DNA dove il fosforo è sostituito all’arsenico. Una notizia bomba, proprio come trovare un alieno sulla terra. Bello! Fra i tanti, anch’io ingenuamente ci casco.

Immediatamente si innesca la controffensiva del web. A partire dai blog di alcuni scienziati si diffondono a macchia d’olio (fino a contaminare anche i media tradizionali) osservazioni pesantemente critiche sulle metodologie e sull’interpretazione dei risultati di Lisa Wolfe-Simon e colleghi.

Come dicevo la vicenda è interessante dal punto di vista della comunicazione e del rapporto fra lo scienziato e l’apparato mediatico. All’inizio i fatti sembrano costruiti ad arte dall’alto: la NASA chiama in causa i marziani, dopodiché annuncia in pompa magna la scoperta (data praticamente per certa) di una biochimica della vita alternativa a quella nota (e questa sarebbe la notizia del secolo).

Immediatamente dopo parte l’onda di critiche nel web, e a cercare di galleggiare in questo mare si trova essenzialmente la giovane scienziata che si è fatta (è stata fatta?) portavoce della scoperta.  E come spesso accade, la ragazza sembra navigare un po’ a vista: da un lato cerca di difendersi arroccandosi nel suo ruolo di scienziata (per esempio ha dichiarato di “non aver avuto il completo controllo” sul contenuto del comunicato stampa originariamente diffuso dalla NASA), dall’altro lato fa largo uso di modi diretti e informali per comunicare sulla vicenda (per esempio attraverso la sua pagina web e twitter, lanciandosi in affermazioni personali e risposte più o meno dirette alle critiche).

È presto per tirare le somme sull’accaduto, e intanto mi limito a guardare, ma credo che questo caso ci dirà molto sul ruolo e sulle responsabilità attuali dello scienziato nella comunicazione verso il grande pubblico.

Su un altro versante (non del tutto disconnesso dal precedente) la cosa che mi pare interessante anche  per quel che riguarda il processo di validazione dei dati scientifici.

Non è una novità (basti pensare agli arxiv), ma questo episodio ma è talmente eclatante e paradigmatico che vale la pena di soffermarsi.

Con il progressivo appropriamento degli strumenti partecipativi sul web da parte della comunità scientifica internazionale si sta osservando infatti una sorta di sdoppiamento del processo di revisione.  Da un lato c’è il tradizionale peer-review, dall’altro un processo informale e partecipativo di revisione nel web. La ricerca di Wolfe-Simon come ogni ricerca seria, è stata sottoposta al classico peer-review e infine accettata per la pubblicazione in una delle riviste scientifiche più in vista (seppur nella sua forma più rapida di pubblicazione): Science Express.

In questo caso la revisione deve essere stata un po’ frettolosa e comunque non così approfondita (pressioni da parte della NASA?) come avrebbe dovuto, e le numerose imprecisioni sono state implacabilmente messe a nudo nella blogosfera. Quello che mi pare significativo e che probabilmente è già in atto un secondo processo (molto più attento) di peer-review, innescato proprio dalla reazione del web. La vicenda di Wolfe-Simon e colleghi una volta di più dimostra che un processo che una volta era molto più chiuso e impermeabile oggi può essere massicciamente influenzato dal basso. È un po’ come se ci fossero due processi di revisione che viaggiano su binari paralleli, dove quello più dinamico fluido (e magari meno rigoroso) è in grado di ravvivare e riaggiustare la rotta di quello più ufficiale.

Oggi Wolfe-simon ha pubblicato le risposte alle principali critiche mosse contro il suo lavoro. “Mentre il team preferisce affrontare le domande attraverso un processo di peer-review, Felisa Wolfe-Simon e Rom Oremland offrono informazioni addizionali qui, come servizio pubblico, e per chiarire i dati e le procedure, “ si legge.

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Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa è laureata in Psicologia con un dottorato in percezione visiva ottenuto all'Università di Trieste. Dopo l'università, ha ottenuto il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. Da qui varie esperienze lavorative, fra le quali addetta all'ufficio comunicazione del science centre Immaginario Scientifico di Trieste e oggi nell'area comunicazione di SISSA Medialab. Come giornalista free lance collabora con alcune testate come Le Scienze e Mente & Cervello.