CRONACA

Memoria digitale batterica

NOTIZIE – Che il futuro della memoria digitale stia nei batteri? Sì, avete letto bene, batteri e non virus, e intesi in senso letterale. Nella fattispecie si tratta di Escherichia coli. Un team di studenti cinesi (dell’Università Cinese d Hong Kong) da qualche tempo sta infatti lavorando  sulla “biomemoria”, e cioè la possibilità di immagazzinare le informazioni negli organismi viventi. Per ora Aldrin Yinn e colleghi sono riusciti a immagazzinare gli 8074 caratteri della dichiarazione di indipendenza americana (perché dei cinesi abbiano scelto questo testo resta un mistero, forse ha a che fare con la parziale sponsorizzazione della ricerca da parte del Massachusetts Institute of Technology) in diciotto cellule batteriche. Yinn ha presentato i risultati al concorso iGEm, promosso dal MIT, dove è stato premiato con una medaglia.

I vantaggi di questa tecnologia potrebbero essere enormi. Per esempio se l’opinione degli autori è corretta, dato che le cellule si riproducono i dati immagazzinati potrebbero resistere virtualmente all’infinito. Inoltre il materiale fisico in cui viene mantenuta la memoria è estremamente ridotto e grandi quantità di informazione occuperebbero pochissimo spazio materiale.

La ricerca di Yinn e colleghi sta muovendo appena i primi passi, ma Yinn ritiene che il lavoro fatto sinora abbia dimostrato che questa è una via percorribile. La tecnica si basa su un metodo molto a simile a quelli che si usando in bioingegneria per produrre organismi geneticamente modificati. Il Dna dei batteri viene estratto, l’informazione viene compressa, divisa in pacchetti e ridistribuita nel materiale genetico  (che viene alterato secondo un codice preciso). Uno speciale metodo di mappatura permette poi ritrovare facilmente l’informazione.

Yinn e colleghi hanno dimostrato di poter immagazzinare e recuperare l’informazione senza errori. Secondo gli stessi autori ci vorranno comunque molti anni prima di poter avere il primo computer con una memoria basata su un disco di Petri.

Un’altra applicazione (più immediata) del metodo è in qualche modo più fantascientifica. Pare infatti che sia possibile immagazzinare delle informazioni aggiuntive nei geni delle piante OGM che vengono normalmente usate in agricoltura (informazioni contenuti in geni che però non alternano minimente il fenotipo della pianta). In questo modo sarebbe possibile inserire nel DNA stesso di queste piante informazioni per esempio sul copyright di quella varietà specifica e molti altri dati. In pratica ogni seme avrebbe dentro di se il marchio in maniera “intrinseca” e indelebile(ed eventualmente riproducibile con la pianta stessa). C’è qualcun altro che come me trova questa cosa un po’ inquietante?

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Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa è laureata in Psicologia con un dottorato in percezione visiva ottenuto all'Università di Trieste. Dopo l'università, ha ottenuto il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. Da qui varie esperienze lavorative, fra le quali addetta all'ufficio comunicazione del science centre Immaginario Scientifico di Trieste e oggi nell'area comunicazione di SISSA Medialab. Come giornalista free lance collabora con alcune testate come Le Scienze e Mente & Cervello.