CRONACAIL PARCO DELLE BUFALE

10:23 – Si parla di placebo

OMEOPATIA – Non facciamo che ripeterlo: come potete leggere nell’esauriente quanto chiara rassegna proposta da Queryonline, i farmaci omeopatici a oggi non hanno mai dato prove convincenti di efficacia maggiore rispetto all’effetto placebo, e per questo non possono essere considerati farmaci nel senso scientifico del termine.

Ma che cos’è questo effetto placebo? Magia o fisiologia? Fantasia o reale e potente effetto terapeutico?

Il termine nasce grazie a un episodio avvenuto durante la seconda Guerra Mondiale, quando un’infermiera che lavorava con il dottor Henry K. Beecher, anestesista, dato che erano finite le scorte di morfina, iniettò in un paziente sofferente una siringa di acqua e sale, mentendo sul contenuto della fiala. Disse cioè al paziente che quel farmaco avrebbe attenuato il dolore e il trucco funzionò. Questo aneddoto segna storicamente l’entrata del placebo in medicina, proprio grazie al lavoro di Beecher, che una volta finita la guerra ritornò al suo posto di professore all’Università di Harvard.

La scoperta di Beecher (che pubblicò i risultati della fondamentale ricerca nel 1955 sul Journal of the American Medical Association) modificarono per sempre il medoto di ricerca in medicina (e non solo). Oggi come oggi non esistono ricerche sugli effetti di un farmaco che non confrontino i dati con quelli placebo. In pratica il vero effetto di un farmaco viene oggi calcolato “sottraendo” quello del placebo. Negli Stati Uniti la Food and Drug Administration ha stabilito che un farmaco per essere approvato deve dimostrarsi superiore al placebo in almeno due test standardizzati (effettuati per ogni fase clinica con doppio cieco, e sessioni randomizzate).

Ma che cos’è di preciso questo effetto placebo? Quello che hanno osservato Beecher e molti altri dopo di lui è che semplicemente il fatto di credere di star ricevendo un trattamento medico (una pillola ma anche altri tipi di terapia) produce in molti casi un’attenuazione dei sintomi della malattia nel paziente. È un effetto che varia molto di persona in persona e anche a seconda del tipo di malattia, ma in certi casi è davvero potente.

Cosa si sa delle basi biologiche? Uno dei pionieri per quanto riguarda la fisiologia dell’effetto placebo è un italiano, Fabrizio  Benedetti, professore di fisiologia all’Università di Torino e consulente del National Institute of Health statuinitense. Benedetti lavora sulla biochimica del placebo da più di 15 anni ed è uno dei maggiori esperti mondiali  sull’argomento.

La grande svolta in questo tipo di studi ci fu quando si scoprì che il naloxone, un farmaco, era in grado di bloccare gli effetti antidolorifici del placebo. In pratica questa sostanza bloccava la produzione naturale di oppiodi nel cervello, sostanze endogene antidolorifiche.

Il fatto che una sostanza chimica fosse in grado di bloccare quello che si credeva un effetto psicologico generico insospettì Benedetti che da allora è riuscito a mappare un gran numero di sostanze biochimiche che entrano in gioco nell’effetto, scoprendo che non solo sono in grado di diminuire la percezione del dolore, ma di modulare anche il battito cardiaco e la respirazione. E non solo, studi che hanno fatto molto scalpore hanno dimostrato per esempio che si può indurre nell’organismo di pazienti affetti da Parkinson un aumento della produzione di dopamina attraverso l’effetto placebo (migliorando così anche – temporaneamente – migliorata la funzione motoria).

Una lunga serie di studi recenti sembra indicare che una componente fondamentale nello scatenare il placebo è soprattutto l’interazione con il medico e lo stesso “setting terapeutico”. Di recente per esempio un’ampia rassegna su Psychosomatic Medicine e uno studio su Plos One hanno dimostrato che mettere il paziente in  una situazione medica  simulata (anche rendendo palese, come nel secondo studio citato che la terapia somministrata non ha alcun effetto terapeutico) può provocare una remissione dei sintomi.

Nella grande (e variegata) categoria degli effetti placebo non va dimenticato l’effetto curativo dell’interazione con un medico “empatico”, quello che si prende cura del paziente anche a livello psicologico. Un dato in questo senso viene proprio da uno studio sul consulto con i medici omeopati: il consulto con il medico omeopata (ma non il trattamento omeopatico, come scrivono chiaramente gli autori dello studio pubblicato lo scorso novembre sulla rivista Reumathology) ha mostrato chiari effetti benefici.

Un altro articolo recente, pubblicato su The Lancet (al quale ha partecipato anche Benedetti) conferma ulteriormente che non solo l’effetto placebo è genuino, e che è principalmente legato alla “pratica terapeutica”, ma che molto spesso viene indotto senza che vi sia una vera intenzionalità da parte dei medici e del personale sanitario. È dunque il comportamento stesso del personale medico a indurre gli effetti benefici del placebo, e questa è forse anche uno dei grandi successi delle medicine cosiddette alternative, omeopatia inclusa (come dimostrato dallo studio citato sopra).

E se vogliamo cercare radici ancora più primitive, la prima e vera dispensatrice di effetti placebo è sempre la mamma, che con un solo tocco, una carezza, un bacio, un abbraccio è in grado di lenire grandi dolori, fisici o emotivi. E neanche qui si tratta di magia. Per quanto riguarda infatti l’effetto anti-dolorifico del “tocco” è ben noto ai fisiologi che le vie sensoriali tattili “circuitano” su quelle dolorifiche riuscendo ad inibire la sensazione di dolore fisico (a seguito di un trauma) prima che questa arrivi al cervello.

La medicina tradizionale è sempre più disumanizzata (tanto che uno studio recente ha persino dimostrato gli effetti deleteri nella diagnosi provocati da una scarsa empatia – comunemente la chiameremmo tatto e calore umano) da parte dei medici. Le medicine alternative si basano invece proprio sull’umanizzazione del paziente, lo mettono al centro, lo coccolano e  lo curano prima di tutto nelle emozioni e nella sfera psicologica. Questa dimensione, una volta rappresentata forse dal medico di famiglia è ormai sempre più rara nella sanità pubblica, per cui è comprensibile che molti si orientino altrove. Da tempo si invoca una correzione di rotta per quanto riguarda la medicina (e i luoghi di terapia, come gli ospedali) proprio per quel che riguarda questa tematica, ma l’impresa a oggi appare ancora titanica.

Gli effetti terapeutici “complementari” potrebbero in qualche modo risultare alleati nelle terapie tradizionali, anche se non possono in alcun modo, nel caso di malattie gravi, sostituirsi alle terapie tradizionali che hanno provato efficacia. Uno dei campi più promettenti è quello in cui si sperimenta l’uso del placebo (possibilmente in maniera etica, come nello studio citato sopra) accanto alle terapie tradizionali: per esempio un gruppo di ricercatori (hanno collaborato la Harvad University, il MIT e l’Università di Rochester) ha sperimentato con successo una diminuzione del dosaggio di farmaci cortisonici (di cui sono sicura che più di qualche lettore conosce i pesanti effetti avversi) nel trattamento della psoriasi, proprio grazie al placebo. Una strada promettente dunque, ma sempre a patto di non ingannare i pazienti.

Condividi su
Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa è laureata in Psicologia con un dottorato in percezione visiva ottenuto all'Università di Trieste. Dopo l'università, ha ottenuto il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. Da qui varie esperienze lavorative, fra le quali addetta all'ufficio comunicazione del science centre Immaginario Scientifico di Trieste e oggi nell'area comunicazione di SISSA Medialab. Come giornalista free lance collabora con alcune testate come Le Scienze e Mente & Cervello.