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Watson ha vinto. Come?

Il 16 febbraio scorso Watson, il supercomputer dell’IBM, ha definitivamente surclassato i suoi avversari umani al quiz show Jeopardy!. Ecco perché, al di là del clamore mediatico, questo è un enorme passo avanti per gli studi sull’Intelligenza Artificiale.

FUTURO – Non è la prima volta che un computer batte un essere umano a un gioco. Per citare il caso più noto, nel 1997 il Gran Maestro Garry Kasparov fu sconfitto a scacchi da Deep Blue, un altro dispositivo sviluppato dall’IBM. Kasparov arrivò a dire che alcune mosse rivelavano un’intelligenza umana e accusò quindi l’IBM di aver barato, ma non portò nessuna prova sostanziale. A nessuno piace perdere.

Sia come sia, la recente vittoria di Watson non è nemmeno paragonabile a quella di Deep Blue. Il gioco degli scacchi, infatti, si presta molto facilmente all’analisi da parte di un computer, e tra lo spettro di mosse disponibili di volta in volta al giocatore, è possibile attribuire un valore numerico al vantaggio (o allo svantaggio) che ognuna di queste può portare. Deep Blue non ha fatto altro che usare la forza bruta: poteva analizzare 200 milioni di posizioni al secondo e il suo database era stato costruito analizzando le partite giocate dai Gran Maestri.

Watson ha giocato a un gioco certo molto meno “nobile” degli scacchi, ma il risultato raggiunto è molto, molto più importante. Watson, per giocare a Jeopardy!, ha dovuto imparare il linguaggio naturale. Non è tanto la risposta finale che è importante, quanto il processo che usa per arrivarci.

La prima cosa che deve fare la macchina è capire la domanda stessa e renderla computabile. Negli scacchi invece la mossa dell’avversario è di per sé un quesito computabile. Inoltre, chiamarle domande è forse improprio e senz’altro semplicistico: in realtà il conduttore legge delle frasi che contengono indizi che portano a una soluzione, a volte nascosti dietro giochi di parole. La risposta del concorrente deve essere però in forma di domanda. Ad esempio all’indizio “inventò il telefono, ma non mangiava spaghetti”, la risposta dovrà essere “chi era Alexander Graham Bell?”. Poi deve andare a scandagliare il suo immenso database per trovare la risposta giusta, e tutto questo deve succedere nell’arco di qualche secondo, altrimenti gli avversari biologici potrebbero batterlo prenotandosi prima per rispondere.

Decine di persone hanno lavorato a Watson fino al grande evento, atteso da mesi, chi alla parte software chi alla parte hardware. Il sistema è costituito principalmente da 90 server IBM Power 750, ognuno con un processore POWER7 di 3,5 Gigahertz a 8 core. In totale il sistema ha a disposizione 16 Terabytes di RAM e in totale i suoi hard disk contengono 4 Terabytes di dati. Potrebbe sembrarvi poco, ma considerate che Watson non ha bisogno di video, MP3 e immagini nei suoi drive. Quello che gli serve sono le parole, quindi la maggior parte dei dati non è altro che testo. Dal momento che Watson per la gara non ha accesso a Internet, in quei 4 Terabyte è stata salvata anche l’intera Wikipedia.

Il software, installato nel sistema operativo linux SUSE, si chiama DeepQA ed è appunto quello che permette a Watson di utilizzare l’immensa conoscenza contenuta nel database utilizzando il linguaggio.

Watson ha gareggiato contro due leggende viventi di Jeopardy!, cioè Brad Rutter e Ken Jennings. Jennings alla domanda decisiva, avendo ormai capito che la macchina aveva vinto, ha scritto tra parentesi assieme alla risposta “I for one welcome our new computer overlords”, un meme che ha le sue radici in un episodio de I Simpson e che si può tradurre

Io, per quanto mi riguarda, do il benvenuto ai nostri nuovi sovrani, i computer.

Alla IBM non sono (ovviamente) così pessimisti e con lo slogan Watson for a smarter planet annunciano che la vittoria ottenuta è solo l’inizio di una lunga carriera per quella che indubbiamente è la macchina più “intelligente” del pianeta. Le applicazioni vanno dalla genomica all’industria ma, secondo gli sviluppatori, quello che può fare è ancora tutto da scoprire, come quando arrivò Internet: nessuno poteva immaginare cosa sarebbe diventato.

 

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Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, mi sono formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrivo abitualmente sull’Aula di Scienze Zanichelli, Wired.it, OggiScienza e collaboro con Pikaia, il portale italiano dell’evoluzione. Ho scritto col pilota di rover marziani Paolo Bellutta il libro di divulgazione "Autisti marziani" (Zanichelli, 2014). Su twitter sono @Radioprozac