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Body snatchers

Questo post fa parte del IV° Carnevale della biodiversità, il cui argomento è “Alieni fra noi”. Il Carnevale èospitato da Renato Bruni, sul suo blog Erba Volant, dove potete trovare anche tutti gli altri blog della “manifestazione”. 

In informatica un cracker  (spesso erroneamente confuso con hacker) è una persona che sfrutta a proprio vantaggio le falle nella sicurezza di programmi e interi sistemi operativi. Quando l’impresa ha successo, i computer presi di mira iniziano a lavorare non più per i legitimi proprietari ma per il cracker. Se il cracker si spinge abbastamnza in profondità può addirittura prendere il completo controllo della macchina.

Più meno questo è noto anche al grande pubblico (grazie anche a film e libri di grande successo), e per questo tutti ci affidiamo agli antivirus e agli antispyware, poiché gli strumenti dei cracker sono ovviamente dei programmi, alcuni dei quali “autonomi” cioè che dalla rete penetrano nel vostro sistema senza che chi è interessato a quello che contiene abbia un ruolo attivo.

Forse è meno noto che la Natura è riuscita a fare qualcosa di simile: ci sono organismi che riescono a “craccare” il comportamento di altri, mettendo questi ultimi al loro servizio. Come un computer preso di mira da un cracker, anche l’organismo comincia cioè a lavorare per il proprio dirottatore.

Si tratta sempre di informazioni, solo che questa volta l’hardware e il software emergono dai geni, e altri geni devono trovare il modo di attaccarli.

Recentemente anche Oggi Scienza si è occupata a questo proposito delle cosiddette “formiche zombi”. All’interno del genere Ophiocordyceps esiste una specie di fungo (O. unilateralis) che manipola il comportamento di alcune formiche rendendole docili veicoli per la propria riproduzione e dispersione. Uno studio su Biology Letters ha recentemente stabilito che questa macabra danza esiste almeno da 48 milioni di anni (nell’Eocene) mentre un altro su Plos One suggerisce invece che O. unilateralis “nasconda” almeno quattro distinte specie, ognuna legata alla propria specie di formica.

Le formiche zombi, però, sono solo la punta dell’iceberg.

Siete in un bosco o in un pascolo, e vedete una formica arrampicarsi su un filo d’erba. Sale fino in cima e poi cade, poi risale, poi ricade, poi risale cercando di stare in cima al filo d’erba. Che cosa sta facendo? A che scopo? Che cosa sta cercando di ottenere questa formica scalando fili d’erba? Che cosa ci guadagna? La risposta è: nulla. Non ci guadagna nulla. E allora perché lo fa? Ha il cervello bacato? Sì, è proprio un baco. Il verme lanceolato. È un piccolo verme del cervello. È un parassita del cervello che deve passare dallo stomaco di una pecora o una vacca per riprodursi. I salmoni nuotano controcorrente per deporre le loro uova e il verme lanceolato approfitta di una formica di passaggio raggiunge il suo cervello e la guida su per un filo d’erba come una jeep. Nessun beneficio per la formica. Il cervello della formica è ostaggio di un parassita che lo infetta inducendo un comportamento suicida. Abbastanza spaventoso.

Daniel Dennett, TED Talk: Dan Dennett on dangerous memes, 2002

La specie di cui sta parlando Dennett, filosofo e scienziato cognitivo (qui si tratta di un cappello introduttivo a un discorso più ampio che riguarda i memi, ma ci arriveremo) è il Dricocelium dendriticum. Dricocelium è un trematode (classe dei Platelminti, i cosiddetti vermi piatti) caratterizzato da un ciclo vitale che prevede tre stadi. Le uova fertili arrivano al terreno attraverso le feci degli ungulati infettati (gli ospiti finali) e qui sono ingerite dalle chiocciole, dove le uova si sviluppano fino allo stadio larvale di cercarie (organizzate in cisti). L’organismo della chiocciola riconosce le cercarie come estranee e le espelle dal poro respiratorio avvolte in una massa di muco. Qui entrano in gioco le formiche: il muco è per l’insetto una delle tante fonti di liquidi e finisce per inghiottire le cisti. Le cercarie maturano in metacercarie, e inizia il cracking del sistema. Una o più larve attaccano il ganglio retrofaringeo della formica, e a quel punto l’insetto comincia a comportarsi nel modo descritto da Dennett. Più nello specifico, le formiche tendono a rimanere in cima alle piante nelle ore più fresche della giornata, ancorandosi con le mandibole al vegetale, cioè non fanno altro che massimizzare le possibilità di essere mangiate dall’ospite finale.

Nel 1976 Richard Dawkins per sottolineare la metafora esplicativa del “gene egoista”, nel suo omonimo libro paragonava gli organismi a veicoli costruiti dai geni per proteggere e propagare loro stessi. In casi come questo i geni si comportano da veri e propri dirottatori: salgono con l’inganno sui veicoli altrui e ne prendono il controllo. Ne Il Fenotipo esteso (1982) Dawkins dedica un intero capitolo alle manipolazioni comportamentali indotte nell’ospite dal proprio parassita.

Ad esempio Leucochloridium paradoxum, un altro trematode, prende il controllo delle chiocciole. Allo stadio di cercarie, le larve ne colonizzano i tentacoli, che assumono l’aspetto di grossi bruchi pulsanti: una irresistibile esca per l’ospite finale, cioè un uccello. Il trematode interferisce con con la percezione della luce dell’animale che invece di cercare, com’è naturale, l’ombra per difendersi dalla vista dei predatori, si dirige proprio verso gli spazi aperti tra la vegetazione e aumentando così le possibilità di essere predato.

Tornando all’analogia di partenza con l’informatica, la differenza più evidente è che il cracker forgia le sue armi e le sue strategie in base a un progetto, l’evoluzione assolutamente no, ma in entrambi i casi il bilancio finale si può ridurre in termini di informazioni copiate. Le stesse parole si potrebbero usare però a proposito di qualunque interazione evolutiva ma quando l’informazione con la quale abbiamo a che fare interessa anche il comportamento, si ha l’impressione che si sia compiuto una sorta di “salto”, che sembra autorizzarci a usare metafore “umanizzanti”, come appunto cracker, zombi etc…. Forse è perché, inconsciamente o meno, ci stiamo chiedendo se il nostro sistema nervoso potrebbe, anche solo in teoria, essere vulnerabile a un attacco di questo tipo o se questo può accadere solo in film di fantascienza come L’alieno (1987) o Il terrore della sesta Luna (1994), solo per citare i più recenti di un prolifico topos della fantascienza cinematografica.

Ad esempio, Toxoplasma gondii è un protista (un eucariote unicellulare) che ha come ospite definitivo il gatto. Quando un ratto è infestato da toxoplasma, il suo istinto di conservazione va in avaria e invece di tenersi alla larga dai luoghi che hanno l’odore del felino, ne è attirato. In questo caso un organismo semplicissimo può trasformare in un burattino un vertebrato che noi, tra l’altro, usiamo come organismo modello: non stupisce quindi che in Parasite pig (2002) di William Sleator, uno dei personaggi è Madame Gondii, un parassita che vive nel cervello del protagonista e che agisce in modo da dirigerlo sul pianeta J’koot, dove spera possa essere mangiato dai giganteschi granchi che sono l’ospite definitivo della sua specie.

Quindi, quanto è veramente vulnerabile la nostra mente?

Secondo Dennett e altri, moltissimo. Non però a un essere vivente come Madame Gondii, ma a replicatori non genetici a cui Dawkins nel lontano ’76 diede il nome di “memi”.

meme (dal greco mimema, «che è imitato» sul calco di gene): elemento di una cultura che può ritenersi trasmesso da un individuo a un altro con mezzi non genetici, soprattutto attraverso l’imitazione. (Oxford English Dictionary)

La tesi dei memetisti è che questi elementi culturali siano (come i geni) egoisti, cioè la loro diffusione non tiene conto degli interessi dei veicoli, ma solo del proprio. L’evoluzione memetica spiegherebbe in modo naturalistico quegli aspetti della cultura umana che, spesso arbitrariamente, sono messi al riparo (dai memi stessi?) dell’indagine razionale, come la fedeltà a un’ideologia o la devozione rivolta a un culto piuttosto che a un altro.

Per questo Dennett ha scelto l’esempio della formica infestata da D. dendriticum per introdurre un discorso sulla memetica: forse la chiave per comprendere la nostra specie deve passare attraverso l’applicazione del principio del darwinismo universale, come suggerisce Susan Blackmore nel suo libro La macchina dei memi (2002).

E se la storia naturale della cultura umana passasse proprio attraverso  alberi filogenetici simili a questo?

Bibliografia:

Evans HC, Elliot SL, Hughes DP, 2011 Hidden Diversity Behind the Zombie-Ant Fungus Ophiocordyceps unilateralis: Four New Species Described from Carpenter Ants in Minas Gerais, Brazil. PLoS ONE 6(3): e17024. doi:10.1371/journal.pone.0017024

David P. Hughes, Torsten Wappler, and Conrad C. Labandeira Ancient death-grip leaf scars reveal ant–fungal parasitism Biol Lett 2011 7: 67-70. doi: 10.1098/rsbl.2010.0521

Dawkins, Richard, Il gene egoista: La parte immortale di ogni essere vivente, traduzione di Giorgio Corte e Adriana Serra, II edizione, Mondadori: Milano, 1995.

Dawkins, Richard ; Dennett, Daniel, The Extended Phenotype: The Long Reach of the Gene, Oxford University Press, 1999.

Dennett, Daniel, Rompere l’incantesimo: la religione come fenomeno naturale, Raffaello Cortina editore, Milano, 2007.

Blackmore, Susan, La macchina dei memi: perché i geni non bastano, traduzione di Isabella C. Blum, Torino: Instar Libri, 2002.

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Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, mi sono formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrivo abitualmente sull’Aula di Scienze Zanichelli, Wired.it, OggiScienza e collaboro con Pikaia, il portale italiano dell’evoluzione. Ho scritto col pilota di rover marziani Paolo Bellutta il libro di divulgazione "Autisti marziani" (Zanichelli, 2014). Su twitter sono @Radioprozac