AMBIENTE

Sete e fame

E’ iniziata la Settimana mondiale dell’acqua con la pubblicazione di due rapporti delle agenzie dell’ONU. Le novità sono poche, di cui una benvenuta e una discutibile.

AMBIENTE – Settimana mondiale della siccità sarebbe stato un nome più azzeccato, data quella in corso nel corno d’Africa, in Siberia orientale, nel sud-est degli Stati Uniti e in Messico, a Samoa e isole circostanti, nella parte più densamente popolata della Cina e mi fermo per non sconfortare chi rientra fresco e pimpante dalle vacanze.

La Consulta internazionale per la ricerca agronomica (CGIAR) ha messo on line la documentazione su risorse idriche, ecosistemi e agricoltura, più una sintesi ampia e una stringata. Per alcuni paesi, africani soprattutto, i dati non sono molto aggiornati. Gli altri peggiorano un po’ tutti: dall’inizio del secolo ogni anno da 5 a 10 milioni di ettari di terre coltivabili sono rese improduttive dal degrado dell’ecosistema; la carenza d’acqua non inquinata contribuisce all’aumento dei prezzi  e delle persone che patiscono la fame. Tutto prevedibile, insomma.

Anche le raccomandazioni per garantire la sicurezza alimentare sono già note, salvo una. In breve, le gestione delle risorse idriche e agricole va integrata in quella dell’ecosistema, preservando alcune aree che contribuiscano a rinnovarlo. Ci sono anche indicazioni concrete per le zone aride e quelle umide, per esempio alternare coltivazioni e pascoli se ci sono allevamenti, piantare alberi attorno a certe colture, abbinare risicoltura e allevamenti ittici ecc.

Finalmente

C’è un’indicazione più generale, chissà se verrà accolta. I paesi e la comunità internazionali non basino più gli interventi per la sicurezza alimentare su poche specie. Oggi, per comodità burocratica – è difficile procurarsi dati disaggregati – gli indici mondiali tengono conto di cereali, soia e zucchero, e guarda caso su sementi prodotte da sei multinazionali. Anche gli aiuti umanitari si basano sugli stessi indici, un circolo vizioso che alcune Ong cercano di spezzare da decenni.

Da prendere con le pinze 

Gli autori del rapporto Zone umide, agricoltura e riduzione della povertà scrivono, giustamente, che la conservazione di ecosistemi integri non deve avvenire a scapito della gente che ne vive. Quindi le popolazioni locali devono poter di praticare l’agricoltura anche nelle aree umide protette, con alcuni accorgimenti che ne aumentino la produttività senza diminuirne i “servizi”. In effetti accade già, e non ci sono problemi se le zone sono piccole e difficilmente accessibili come quelle nello Zimbabwe citate nel rapporto.

Ma le Ong impegnate contro la fame e la povertà sanno bene cosa succede quando si fa un’eccezione per le paludi e le mangrovie tutelate dalla Convenzione di Ramsar, le pianure alluvionali come quella del Tonlé Sap tutelata dall’Unesco in quanto Riserva della biosfera.

Le popolazioni locali sono cacciate via da imprese agro-alimentari (e sul Tonlé pure da quelle immobiliari). Invece di piccoli appezzamenti, rotazioni, pesca sostenibile, ci sono monoculture, e  pesticidi e fertilizzanti accelerano il degrado dell’ecosistema. Le imprese agro-alimentari, infatti,  non sono interessate al più importante dei servizi resi dalle zone umide: la protezione contro le alluvioni. A differenza delle popolazioni locali, hanno i mezzi per assicurarsi.

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Foto: Convenzione di Ramsar. Nelle mangrovie dello Sundarban, in Bangladesh, i pescatori si fanno aiutare da lontre addomesticate.

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