CRONACA

Australopithecus sediba: parente sicuro, antenato chissà…

CRONACA – È una vecchia (e pessima) abitudine, quella di gridare alla rivoluzione ogni volta che irrompe sulla scena, ormai del resto piuttosto affollata, un nuovo fossile di ominide. È successo anche questa volta con Australopithecus sediba, scoperto tre anni fa in Sudafrica e presentato in gran dettaglio la settimana scorsa su Science. Neanche il tempo per un’occhiata alla suggestiva copertina della rivista, con quella piccola mano che pare delicatamente appoggiata sul foglio, che in giro è stato subito un pop up frenetico di titoli a effetto sull’anello mancante tra l’uomo e il suo antenato Lucy e sulla necessità di riscrivere la storia dell’evoluzione umana. Eppure, in queste cose bisogna andarci con i piedi di piombo: la scoperta è importante, non c’è dubbio, ma al di là di quanto propone l’autore della scoperta, sulla posizione precisa di Au sediba nel groviglio di ominidi che calpestavano il suolo africano due milioni di anni fa non è stata ancora detta l’ultima parola. Né dirla sarà poi tanto facile .

Una cosa è certa: i due fossili descritti su Science sono effettivamente sorprendenti. Parliamo di due scheletri parziali, un maschio adolescente e una femmina adulta, in ottimo stato di conservazione, risalenti a 1,97 milioni di anni fa e con caratteristiche che sono il sogno (o l’incubo) di tutti i ricercatori del settore: in parte moderne, già da Homo, in parte antiche, ancora da australopiteci (insomma, più “scimmiesche”). A imbattersi nella clavicola di uno dei due, nei pressi della grotta di Malapa, a 40 km da Johannesburg, è stato nell’agosto del 2008 un fortunato bambino, che aveva dalla sua anche un paio di circostanze nettamente a favore. Intanto il fatto di trovarsi a girellare niente meno che nella Cradle of Humankind, la culla dell’umanità, un ampio sistema di grotte con una delle più alte concentrazioni di fossili di ominidi al mondo. E poi il fatto di essere figlio di un paleoantropologo, Lee Berger, dell’Università di Witwatersrand. Che ovviamente non si è lasciato sfuggire il colpaccio.

Una prima presentazione ufficiale dei fossili c’era stata già l’anno scorso, sempre su Science (e sempre con una copertina dedicata). Secondo Berger era chiaro fin da allora che si trattava di una nuova specie, chiamata appunto Australopithecus sediba, le cui caratteristiche intermedie potevano far pensare niente meno che a un antenato del genere Homo. Apriti cielo. Già allora la comunità dei paleoantropologi, di suo una delle comunità scientifiche più litigiose in assoluto, cominciò ad accapigliarsi: Au sediba può essere davvero un antenato di Homo o è “solo” un ominide in più nel complicato cespuglio dei nostri antichi parenti? E poi: sarà stato corretto attribuirlo agli australopiteci o era forse meglio infilarlo subito tra gli Homo? Con la nuova serie di articoli su Science, dedicati a vari aspetti della morfologia dei due individui, la discussione si riapre, più accesa che mai.

Partiamo dal cranio: i ricercatori hanno sottoposto quello del maschio adolescente a una scansione molto sofisticata al sincrotrone di Grenoble, che ha permesso di dedurre alcune caratteristiche del cervello che c’era dentro.

Viste le dimensioni del cranio, il cervello doveva essere molto piccolo, più o meno come quello di uno scimpanzé, ma l’analisi effettuata dice che possedeva già caratteristiche moderne, come una particolare organizzazione del lobo frontale e di una regione in corrispondenza della tempia sinistra, che negli esseri umani è collegata al comportamento sociale, al linguaggio e all’uso di strumenti. Insomma, secondo Berger è un cervello che comincia a organizzarsi in modo “umano” pur essendo ancora piccino: un’osservazione che sembra contrastare la diffusa linea di pensiero secondo cui l’evoluzione del cervello nella nostra specie sarebbe stata guidata prima dall’aumento di dimensioni e poi dalla riorganizzazione interna.

Discorso analogo per il bacino: ancora piccolo, con una canale del parto piuttosto stretto, come negli australopiteci, ma con ossa che per forma e angolatura ricordano quelle umane. Anche qui: si è sempre pensato che a guidare l’evoluzione del bacino umano sia stata la necessità di partorire neonati con la testa grossa, ma la testa di Au sediba è piccola. Dunque, deduce Berger, la spinta evolutiva deve essere stata un’altra, probabilmente legata alla locomozione bipede. E veniamo agli arti: un braccio lungo come quello di un australopiteco, ma con una mano che sembra avere caratteristiche proprie di Homo (dita corte e pollice lungo, che forse consentivano di afferrare oggetti con grande precisione); un piede scimmiesco con una caviglia praticamente umana.

Un paleo-puzzle che per Berger parla chiaro: non c’è ragione per non considerare Au sediba un potenziale antenato del genere Homo. Non tutti, però, sono d’accordo. Tanto per cominciare, c’è chi contesta – e non sono pochi – le conclusioni tirate da Berger per ogni singolo tratto anatomico dei suoi scheletri. Secondo il neuropaleontologo Ralph Holloway della Columbia University, per esempio, sarebbe prematuro affermare che il cervello di Au sediba sia più moderno di quello di altri australopiteci, perché non sono stati fatti confronti estesi con altri membri sudafricani del genere Australopithecus. O ancora: per William Jungers della Stony Brook University, la mano dell’ominide sarebbe ancora una mano di australopiteco. E sulla faccenda dell’origine di Homo le cose si complicano ancora di più.

Prendiamola da lontano, dal primo australopiteco descritto. Si tratta di un fossile rinvenuto proprio in Sudafrica nel 1924, risalente a 2,5 milioni di anni fa circa e “battezzato” Australopithecus africanus. Per un certo periodo, Au africanus è stato considerato un antenato diretto del genere Homo. Poi è arrivata l’etiope Lucy (Australopithecu afarensis), vecchia di 3,2 milioni di anni, e la musica è cambiata: lo scettro dell’antenato di Homo è passato al nuovo australopiteco e le luci della ribalta si sono spostate tutte sull’Africa orientale, lasciando il Sudafrica nel buio completo. “Colpa anche del regime di Apartheid, che non aveva certo interesse a studiare l’origine dell’uomo, e del boicottaggio della comunità scientifica internazionale verso tutto quello che veniva dal Sudafrica”, dice Jacopo Moggi Cecchi, paleoantropologo dell’Università di Firenze, studioso di ominidi sudafricani.

Dopo Lucy e prima di Homo, comunque, è il vuoto. O, meglio, il caos. Il primo rappresentante certo del nuovo genere è Homo erectus, i cui resti più antichi, risalenti a circa 1,9 milioni di anni fa, sono stati ritrovati in Kenya e Sudafrica. Prima di lui si contano una mascella vecchia di 2,3 milioni di anni trovata sempre in Etiopia e attribuita al genere Homo, e poi i fossili di Homo habilis e Homo rudolfensis, che per alcuni, ma non per tutti, potrebbero essere gli antenati diretti di H. erectus. Ora, in più, c’è Au sediba. Lo so, la domanda sorge spontanea: se c’era una mascella di Homo in giro già 2,3 milioni di anni fa, come è possibile che un ominide vissuto dopo sia un predecessore di Homo? Berger, però, ha la risposta pronta: intanto, sostiene, non possiamo essere certi che quella mascella sia davvero di Homo. E poi, nulla vieta che i due scheletri di Malapa rappresentino esemplari tardivi di una specie che, in un altro tempo e magari in un altro luogo, ha dato origine ai primi Homo.

Moggi Cecchi non è tra quelli convinti dalla proposta: “Ci ostiniamo a cercare l’antenato diretto, ma dobbiamo cominciare a renderci conto che un paio di milioni di anni fa la situazione era talmente complessa che difficilmente arriveremo a una soluzione”. È il motivo per cui gli si rizzano i capelli sulla testa quando sente parlare di anello mancante, un concetto che presuppone quello di catena, cioè di una sequenza successiva di eventi legati l’uno all’altro. “Invece dovremmo cominciare a pensare in termini di cespuglio, per di più molto ramificato. I nostri progenitori diretti probabilmente hanno condiviso la loro storia con una gran quantità di ominidi che poi si sono estinti. Rami secchi insomma. Ecco, io penso che sia più parsimonioso pensare che Au sediba sia un ramo secco, piuttosto che un ramo verde”. Il che non significa che non sia importante, anzi. Trovare nuovi membri nella grande famiglia degli ominidi è sempre importante, e lo è anche tornare a far luce sul ricchissimo patrimonio di fossili del Sudafrica. Che il nostro tris-tris-tris-tris nonno sia sudafricano, oppure no.

[La foto di apertura è cortesia di National Geographic; le altre dell’Università di Witwatersrand].

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance