AMBIENTE

Lungimiranza, istituto di

Per conto del governo britannico, il Foresight Institute ha consultato 350 geografi, sociologi, climatologi, demografi, antropologi ed economisti di una trentina di paesi, per cercare di prevedere i flussi migratori globali fino al 2060. Le proiezioni sono pubblicate in Migration and Global Environmental Change. Future Challenges and Opportunities.

Il compito del Foresight (Lungimiranza) è di raccogliere “l’evidenza scientifica” necessaria, fra altre informazioni, ai politici per pianificare a lungo termine. I migranti aumentano insieme alla popolazione mondiale, ovviamente, non dipendono solo dalla demografia. Gli altri fattori che gli esperti dovevano prendere in considerazione erano:  i cambiamenti climatici, la crescita delle metropoli, il degrado delle terre coltivabili e degli ecosistemi costieri e marini,  e le conseguenze in termini di assistenza allo sviluppo, piani di urbanizzazione, gestione dei conflitti.  Rassegne simili sono state pubblicate negli Stati Uniti, soprattutto dalla Difesa e principalmente dal punto di vista della sicurezza interna e della “salvaguardia degli interessi strategici nazionali”.

Gli interessi strategici della Gran Bretagna non esplicitati dal rapporto. Comunque rifiuta di dividere i migranti in “economici”, “ambientali” e “politici” in ordine decrescente di influenza sul numero delle persone che abbandonano la propria famiglia, comunità, cultura. Allo stesso modo, rifiuta di concentrarsi solo sulle popolazione delle zone vulnerabili ai cambiamenti ambientali come i grandi delta o le zone aride. Parte da alcune cifre: nel 2000-2002 c’erano 740 milioni di migranti “nazionali” (all’interno del proprio paese), e l’anno scorso 210 milioni di migranti internazionali; nel 2009 i profughi per cause ambientali erano 17 milioni; l’anno scorso 40 milioni. La tendenza in crescita dall’inizio del secolo, ma

un cambiamento ambientale può rendere la migrazione sia meno possibile che più probabile. E’ costosa perché richiede un capitale, eppure il cambiamento riduce il capitale delle popolazioni che ne subiscono l’impatto.

Come si è appena visto con la siccità in Somalia e le alluvioni in Pakistan e in Thailandia. Inoltre le grandi città del terzo mondo, prive di infrastrutture e di difese (non che quelle di New Orleans fossero da primo mondo) sono ancora più vulnerabili delle campagne e in caso di disastro ambientale possono richiudersi sugli abitanti come trappole. Sul versante delle opportunità, gli autori fanno notare che emigrare e insieme una soluzione al problema individuale e a quello collettivo dei paesi dove gli anziani stanno diventando più numerosi dei giovani, come il Giappone, l’Italia o la Cina, e che avranno bisogno di lavoratori stranieri e di nuovi contribuenti per pagare la pensione e la sanità dei propri cittadini.

Le raccomandazioni sono

– accertare che le migrazioni siano prese in conto negli accordi mondiali su ambiente e clima;

– coordinare gli sforzi destinati a prevenire – qui gli autori sono scettici – e a mitigare i cambiamenti ambientali più pericolosi;

– concordare a livello internazionale le politiche di accoglienza,

perché rispetto al 2000, nel 2060 altri 192 milioni di persone potrebbero vivere nelle pianure alluvionali e nelle megalopoli dell’Africa e dell’Asia.

La Banca Mondiale ha fatto suo il rapporto e ha convocato un vertice a dicembre per discutere dei costi e dei finanziamenti di un eventuale piano d’azione internazionale, dal quale sembra esclusa una gestione dei conflitti, per esempio attraversa una riforma dell’Onu e dei suoi caschi blu. Nel frattempo, non serve  un Foresight Institute per prevedere che gli esiti dei due scenari basati su una “bassa crescita economica mondiale” faranno gridare qualcuno al catastrofismo e che, visti dall’Europa meridionale in crisi, gli altri due faranno gridare all’ottimismo.

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Foto: Bangkok, 19 ottobre,  The Guardian.


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