SALUTE

Tutte le bugie delle banche private del cordone

Come mai in Italia una mamma non può conservare il cordone ombelicale del proprio bambino? Semplicemente perché non ha senso, è la risposta unanime della comunità scientifica.

Aggiornamento 16/05/2016
Poiché continua a essere una valida fonte di informazioni sulla possibilità di conservare il cordone ombelicale, questo articolo viene ancora largamente letto e condiviso dai nostri lettori e ospita un acceso dibattito tra i commenti. Precisiamo tuttavia che non è recente, ma è stato scritto nel 2011. Si è aggiudicato un EU Health Prize for Journalists per il suo valore informativo e il premio giornalistico Riccardo Tomassetti “Per aver affrontato con apprezzabile chiarezza e rigore scientifico un argomento estremamente controverso, in cui scarsa informazione e interessi economici offuscano la realtà oggettiva dei fatti”.

SALUTE – In questo momento, decine di migliaia di donne col pancione se lo stanno chiedendo. Che ne farò del cordone ombelicale quando arriverà il grande giorno? Buttarlo via è un peccato: ogni goccia di sangue del funicolo che lega il feto alla placenta è ricchissima di cellule staminali emopoietiche, cellule “bambine” non ancora specializzate in grado di rigenerare tutte le cellule del sangue, globuli rossi, bianchi, piastrine, e virtualmente ricostruire ogni tessuto del corpo. Sarebbe cosa buona e giusta raccoglierlo.

D’altronde, non tutte le sale parto ospedaliere sono attrezzate (circa 300 i reparti di ginecologia e ostetricia che offrono il servizio) e purtroppo la gran parte delle unità di sangue cordonale che le mamme potrebbero voler donare vengono perdute, perché non hanno la qualità idonea per un futuro trapianto. Di contro, ci sono le banche private del cordone, società estere con una trentina di filiali in tutta Italia. Hanno siti web patinati, sono efficientissime e offrono tutta l’assistenza che un genitore può chiedere.

Permettono di “chiudere in cassaforte” il cordone ombelicale del bebè, per 20-25 anni, crioconservarlo in azoto liquido a -197 °C e recuperarlo immediatamente nel caso in cui il piccolo dovesse averne bisogno.

È la cosiddetta conservazione “autologa”, a uso e consumo personale del neonato. È vietata in Italia (a meno di non rivolgersi, appunto, a società estere), eppure va molto di moda. Più di 60 mila genitori negli ultimi dieci anni hanno spedito a San Marino, in Svizzera, Belgio, Germania o Gran Bretagna il cordone del neonato. Perché – viene detto loro – se un giorno il bimbo dovesse ammalarsi di tumore, leucemia o linfoma, talassemia e altre terribili malattie “potenzialmente curabili”, come sclerosi multipla, diabete, paralisi, distrofia muscolare, potrà utilizzare le sue cellule staminali come “pezzi di ricambio”.

La paura fa novanta. E tanti accettano di sottoscrivere quella che viene presentata come “un’assicurazione biologica”, al prezzo di circa 2mila euro tutto compreso. Nemmeno tanto. Peccato che le cose non stiano così.

Sul business dei cordoni ombelicali (che dai primi anni 2000 a oggi ha fruttato almeno 150 milioni di euro) è intervenuta anche l’Antitrust. Sei banche private del cordone (Smart Bank, Cryosave Italia, Futura Stem Cells, Future Health, Sorgente e Crylogit Regener) sono finite nel mirino dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato per pubblicità ingannevole. In particolare, il provvedimento chiede di rettificare bugie e omissioni riguardanti: tempi di conservazione delle sacche cordonali (garantiti fino a 20-25 anni, mentre la letteratura scientifica fissa il limite a 15-16 anni), reali applicazioni terapeutiche del trapianto autologo, numero di trapianti autologhi effettivi e procedure per il rientro dei campioni.

Ma come mai in Italia una mamma non può tenere per sé il cordone del proprio bambino? Semplicemente perché non ha senso, è la risposta unanime della comunità scientifica. “Tutti i dati disponibili dimostrano che questa pratica manca di consistenti basi scientifiche ed è sostanzialmente inutile per il donatore”, spiega Licinio Contu, genetista e presidente di Adoces, la Federazione italiana associazioni donatori cellule staminali emopoietiche che ha appena pubblicato il rapporto Adoces 2011 sul dibattito del sangue cordonale. Vediamo di capire.

Nel nostro paese, secondo quanto stabilito dalla legge, sono possibili solo la donazione eterologa, con la quale si dona il cordone ombelicale a beneficio della collettività, proprio come avviene per le donazioni di sangue, e la donazione dedicata, ovvero riservata al proprio neonato o un consanguineo per quelle famiglie ad alto rischio di malattie genetiche o che hanno già un bimbo malato.

Sia la donazione eterologa che quella dedicata sono gratuite, a carico del Servizio sanitario nazionale e vengono gestite da una rete di 19 banche pubbliche. L’unico divieto, quindi, riguarda la conservazione “egoistica”, quella autologa. Non è una questione morale né ideologica. D’altronde, ci sarà un motivo se delle 60 mila sacche di cordone ombelicale esportate, nessuna è finora rientrata in Italia per essere trapiantata al bambino donatore o a un suo familiare, mentre delle 30.000 unità donate dalle mamme italiane a scopo solidale ne sono state utilizzate più di mille per trapiantare pazienti italiani ed stranieri.

La spiegazione è presto detta. Le staminali emopoietiche del cordone sono utilizzate con successo per cinque categorie di malattie: leucemie, linfomi (Hodgkin e non Hodgkin), anemie (talassemia, anemia falciforme), immunodeficienze e malattie metaboliche. Nel caso in cui il bimbo sviluppi una di queste patologie, sarebbe da pazzi utilizzare le sue stesse cellule per il trapianto, perché il difetto cellulare potrebbe essere presente sin dalla nascita e provocare una recidiva. Per di più, il trapianto è più efficace quando le cellule non sono compatibili al 100%. In questo caso, quindi, la conservazione autologa sarebbe stata vana. Un’altra possibilità è che un bimbo sano, di cui è stato conservato il cordone, abbia un fratellino malato. In questa circostanza le sue staminali potrebbero rivelarsi molto utili. Già, ma quante volte succede?

Se in famiglia non vi sono casi precedenti di leucemie o altre malattie genetiche (nel qual caso è prevista la donazione dedicata del sistema sanitario pubblico), la probabilità di utilizzare il cordone depositato in una banca estera è di una su 20.000 nei primi 20 anni di vita, ovvero lo 0,005%. Persino in questo caso rarissimo, ci sarebbe solo una probabilità su quattro che due fratellini siano compatibili per il trapianto. Al contrario, le chances di trovare un’unità di sangue cordonale nelle banche pubbliche sono straordinariamente alte, dell’ordine del 75-80% e i tempi d’attesa non superano le 3-4 settimane. Insomma, la conservazione autologa non sembra proprio un grande affare. “È un affare molto vantaggioso solo per le banche stesse”, ribatte Contu.

C’è chi replica: la scelta della conservazione privata va considerata un investimento sul futuro. Una scommessa, insomma, sui progressi della ricerca scientifica. In effetti ci sono numerose sperimentazioni in corso per l’impiego delle staminali emopoietiche per lesioni spinali, infarto, ictus, Parkinson, Alzheimer, sclerosi laterale amiotrofica… Sono stati riportati casi aneddotici di bimbi affetti da paralisi cerebrale che hanno mostrato miglioramenti dopo il trapianto autologo di staminali emopoietiche.

È incoraggiante anche che l’infusione di cellule del cordone per il diabete di tipo 1 non abbia evidenziato grossi effetti collaterali. Tuttavia, gli studi sono solo all’inizio e ci vorranno ancora parecchi anni per avere risultati certi. Allora, forse sì, quello che non è curabile oggi lo sarà domani. Al momento, però, far credere che le staminali del cordone siano o possano diventare una panacea per tutti i mali è solo una strategia di marketing. Falsa, per giunta.

Ognuno, poi, ha il sacrosanto diritto di scegliere. Ma c’è un’obiezione etica forte con cui fare i conti. Se tutte le mamme, allo stato attuale delle evidenze scientifiche scegliessero la conservazione autologa, si assisterebbe a una riduzione della disponibilità di sangue cordonale per i trapianti allogenici. E molti bambini sarebbero privati di una terapia salvavita. Una terapia che esiste, ma è chiusa in qualche banca privata all’estero. E lì resterà inutilizzata. Se fossimo una mamma in dolce attesa, insomma, non avremmo dubbi: sceglieremmo di donare.

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