AMBIENTECRONACA

Crowdsourcing per Fukushima

CRONACA – Chi fa da se fa per tre (trecento, tremila, tremilioni…). Oggi viviamo un’epoca della informazione potenzialmente esaltante, tanto che se accade che gli organi ufficiali stentino a informare il pubblico, attraverso tecnologie alla portata di tutti le persone possono mettersi in rete, bypassare il collo di bottiglia istituzionale e ottenere così informazioni importanti, per esempio i livelli di contaminazione radioattiva sul proprio territorio. È il caso di Fukushima, area vittima del disastro alla centrale nucleare conseguenza dello tsunami che ha colpito la costa giapponese lo scorso marzo. Uno dei problemi più grandi in tutta la vicenda è la colpevole resistenza della Tepco e delle autorità a dare informazioni esaustive e corrette ai cittadini. Le radiazioni nucleari infatti rappresentano un potenziale pericolo per la salute pubblica. In realtà al momento anche se si conoscono bene i danni provocati dalle esposizioni acute alla radiazioni, non si hanno ancora dati certi sugli effetti di esposizioni prolungate a livelli bassi (ma sopra agli standard stabiliti per legge). Dunque questi dati sono importanti anche per ottenere informazioni a scopo di ricerca, oltre che per limitare il più possibile i danni secondo un principio di precauzione (sacrosanto visto che si parla della salute delle persone).

Se la montagna non va da Maometto allora i cittadini si prendono il loro bel contatore Geiger e se ne vanno in giro a raccogliere misurazioni, e se sono tanti le possono mettere in un database che attraverso software nemmeno troppo d’avanguardia ricostruisce mappe navigabili e interattive della contaminazione. Il principio del crowdsourcing è la partecipazione volontaria e collettiva di un gran numero di gente a uno scopo comune. Tipicamente nell’accezione più attuale un sacco di persone partecipano eseguendo un compito che produce un risultato più semplice di quello collettivo, ma che se aggregato nella logica di una rete produce un risultato complesso e molto robusto. E questo è quello che fa il progetto Safecast.

Nato una settimana dopo l’incidente nucleare, anche se per il momento si concentra sulla situazione nipponica si tratta in realtà di un progetto globale. I tasselli che lo compongono sono relativamente semplici. Dei volontari se ne vanno in giro per l’area incriminata portando con sè dei sensori Geiger raccogliendo dati (collegati alla posizione). Più ce ne sono, meglio è. I dati poi vengono caricati (insieme anche a quelli ufficiali diramati dal governo e da vari altri organi). Dati e mappe sono liberamente consultabili e utilizzabili da chiunque (hanno una licenza Creative Commons 0, praticamente sono nel pubblico dominio).

Qualche numero: al momento Safecast conta su 25 sensori mobili (montati su automobili), 50 a mano, 50 fissi, ma conta di aggiungerne altri 300 entro la fine dell’anno. A ottobre di quest’anno erano state eseguite un milione di misurazioni puntuali. Uno dei grossi limiti attuali è che il governo giapponese ha stabilito delle zone interdette in cui non si può entrare e perciò nemmeno i volontari di Safecast riescono a valicare questo limite (guardate qui sotto il servizio della PBS dove Miles O’Brien racconta di come abbia cercato di entrare nelle zone proibite insieme agli altri volonatri di Safecast).

Il progetto al momento si concentra sulla situazione giapponese, ma si espanderà ad altre aree georafiche di interesse (e probabilmente non soltanto sulla questione radiazioni, ma su altri possibili pericoli per la salute pubblica).

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Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa è laureata in Psicologia con un dottorato in percezione visiva ottenuto all'Università di Trieste. Dopo l'università, ha ottenuto il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. Da qui varie esperienze lavorative, fra le quali addetta all'ufficio comunicazione del science centre Immaginario Scientifico di Trieste e oggi nell'area comunicazione di SISSA Medialab. Come giornalista free lance collabora con alcune testate come Le Scienze e Mente & Cervello.