CRONACA

La via italiana per il codice a barre dei viventi

CRONACA – Quel palombo al cartoccio, così buono una volta e tanto mediocre un’altra. O gli spaghetti alle vongolo veraci, facili facili, ma non sempre eccellenti. E pure il risotto alla milanese, oggi gustoso e aromatico mentre una settimana fa era quasi insapore. Che succede? Cucinate a singhiozzo, a volte da chef stellato, altre che neanche alla mensa aziendale? Niente paura, non è detto che sia colpa vostra: può darsi che siano le materie prime a difettare di qualità. Che il palombo comprato non sia sempre palombo, ma magari un pesce meno pregiato. Che di verace le vongole abbiano ben poco e che la bustina di zafferano talvolta contenga anche altro, per esempio della curcuma. Inquietante, vero? Sapere che nel piatto potrebbe non esserci quello che pensavamo di averci messo.

Per fortuna, oggi si sta diffondendo sempre più uno strumento molecolare che permette di fare rapide verifiche sui prodotti alimentari (e non solo), riducendo il rischio di frodi. È il DNA barcoding , una metodica che si basa sul sequenziamento di particolari geni (tipicamente, nel caso degli animali, una porzione del gene mitocondriale CoxI) e che fornisce per ciascuna specie una sorta di “impronta digitale” molecolare, unica ed esclusiva. Un codice a barre, appunto: ogni specie ha il suo e basta una veloce sequenza per capire esattamente da dove viene quel trancio di pesce o quell’ala di farfalla.

Pochi giorni fa si è tenuto a Modena il primo workshop italiano tutto dedicato al DNA barcoding. “Con più di 140 iscritti, è stato un successo”, dichiara entusiasta uno degli organizzatori, Mauro Mandrioli, associato di genetica all’Università di Modena e Reggio Emilia. Per due giorni, si è parlato delle due anime della metodica. Sul fronte “applicazioni pratiche”, per esempio, Maurizio Casiraghi, dello ZooPlantLab di Milano Bicocca, ha ricordato i risultati di un’indagine sul palombo mentre il suo collega botanico Massimo Labra ha citato una collaborazione con Università e Polizia scientifica di Genova per verificare il contenuto di potpourri di piante e fiori. Pare infatti che spesso i miscugli vegetali in vendita online siano solo un pretesto per veicolare droghe sintetiche che vengono mischiate a petali e radici. Si è citato anche il lavoro in progress di Renato Bruni (Università di Parma) sullo zafferano: in diverse bustine in vendita in Italia, Bruni ci ha trovato anche curcuma e Crocus vernus (quel grazioso fiorellino che sboccia a fine inverno, parente dello zafferano, ma senza qualità alimentari).

Sul fronte “ricerca tassonomica”, invece, si è fatto il punto su quanto possa essere utile la tecnica non tanto per fare filogenesi – “Per tratteggiare rapporti evolutivi tra organismi non serve”, precisa Mandrioli – quanto per capire velocemente a che specie appartenga quel particolare organismo (o frammento di organismo). E non solo in laboratorio o nei musei, dove il DNA barcoding è fondamentale per esempio per distinguere tra specie criptiche (apparentemente molto simili da essere ritenute una specie unica, ma in realtà distinte). Il codice a barre, infatti, può servire anche in circostanze più insolite: per esempio davanti al freezer pieno di un sospetto bracconiere. È davvero una scorta di manzo quello che c’è dentro, o sono piuttosto parti di un animale di cui sia vietata la caccia?

Sicuramente, però, la notizia davvero interessante emersa dal workshop è la costituzione di un consorzio italiano per il DNA barcoding. In altre parole: molti dei gruppi di ricerca italiani (e anche alcune aziende) che si occupano di questa metodica hanno deciso di riunirsi e di provare a lavorare insieme. Mandrioli riassume gli obiettivi principali dell’iniziativa: “Primo: condividere un patrimonio di conoscenze teoriche e metodologiche, per permettere a tutti di lavorare con gli stessi standard, spaziando dagli animali alle piante. Secondo: identificare gruppi che possano fare formazione per altri sul DNA barcoding. Terzo: promuovere richieste di finanziamento su larga scala. Mettendo insieme gruppi che fanno cose diverse si può pensare per esempio a un progetto di barcoding di tutto il Mediterraneo. Quarto: dare visibilità ai singoli gruppi, costituendo una sorta di vetrina in cui chiunque possa trovare facilmente ciò che gli interessa. Quinto: interagire con laboratori privati che possano essere interessati a commercializzare il barcoding ma che non abbiano tempo e strutture per mettere a punto metodi efficienti”.

Intanto, anche nel nostro paese, una piccola vittora il DNA barcoding l’ha già conquistata: riportare i giovani alla tassonomia, disciplina importante ma ultimamente ritenuta troppo antiquata e polverosa per essere davvero cool. Invece, attratti dalla parte molecolare della tecnica, alcuni studenti stanno tornando ad appassionarsi di classificazione.

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance