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L’Inran non deve morire

POLITICA – L’Istituto nazionale per la ricerca sull’alimentazione e la nutrizione (Inran), l’ente che ha promosso la dieta mediterranea nel mondo, potrebbe chiudere battenti. Il motivo? Il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf), a cui l’Inran afferisce, sta facendo pulizia nel marasma di enti e società sotto la propria vigilanza. Riordino, soppressione, riduzione sono le parole d’ordine, in tempo di spending review. Ma c’è il rischio di buttar via il bambino con l’acqua sporca.

Nel mirino del Mipaaf ci sono organismi disparati e con compiti spesso sovrapposti. Alcuni si occupano di agricoltura, come il Cra (Consiglio per la ricerca in agricoltura), con 1.800 dipendenti e 47 centri sparsi per l’Italia, e l’Inea (Istituto nazionale di economia agraria), con 300 dipendenti e 20 filiali regionali. Spicca l’Inran, che fa ricerca sull’alimentazione e conta circa 250 persone, dopo l’accorpamento nel 2010 di due enti più piccoli, l’Ense (Ente nazionale sementi elette, 100 dipendenti) e l’Inca (Istituto nazionale per le conserve alimentari, 16 dipendenti). Poi ci sono gli enti economici, come l’Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare), che finanzia l’acquisto dei terreni da parte degli agricoltori e ha un organico di circa 150 persone, l’Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) che distribuisce fondi comunitari per quasi 7 miliardi l’anno. Nell’elenco rientrano inoltre società controllate da questi stessi organismi, come la Sin (Sistema informatico agricolo nazionale), l’Isa (Istituto per lo sviluppo agroalimentare), l’Agecontrol, l’Agensud.

Insomma, dal dicastero presieduto dal ministro Mario Catania è partito l’ordine di razionalizzare le risorse disperse in mille rivoli.  Tagliare il tagliabile. Compreso l’Inran, a quanto pare, che dal prossimo 30 settembre potrebbe essere soppresso o declassato a ente di servizio. Ma possiamo davvero fare a meno della ricerca scientifica in campo alimentare? La risposta è no.

Se è vero che siamo quello che mangiamo, è fondamentale che qualcuno ci dica, sulla base di evidenze solide e non operazioni di marketing, cosa è bene portare in tavola e cosa no, cosa c’è nei nostri piatti, quali raccomandazioni seguire per una dieta sana ed equilibrata. A maggior ragione oggi, in una società che tende a cucinare meno, mangiare peggio e ingrassare di più. Si calcola che un terzo delle malattie, tra cui i tre big killer (tumori, malattie cardiovascolari, diabete), sarebbero prevenibili con una migliore alimentazione. Non solo. La ricerca è un efficace sistema di anticorpi contro frodi e sofisticazioni alimentari, è un “cane da guardia” sulla sicurezza del cibo che importiamo dall’estero, una garanzia della qualità dei prodotti del made in Italy. Serve, insomma, perché è un investimento per la salute e per il paese. E serve che resti pubblica, perché solo il finanziamento pubblico garantisce che operi indipendentemente dall’industria ed esclusivamente nell’interesse dei cittadini.

L’Inran esiste da 50 anni per rispondere a questi compiti. Si è guadagnato riconoscimento internazionale per le attività sulla dieta mediterranea, eletta patrimonio dell’umanità dall’Unesco, ha prodotto le linee guida della corretta alimentazione, promosso campagne di educazione alimentare e ricerche sui consumi, realizzato studi sperimentali, stilato le più dettagliate tabelle di composizione nutrizionale su quasi 800 cibi consultabili nel database online, studiato varietà agroalimentari dimenticate, a tutela della biodiversità. Dal 1997, i ricercatori hanno prodotto più di mille pubblicazioni scientifiche per un totale di 18 mila citazioni. “Oggi stiamo portando avanti studi di frontiera sull’interazione tra i nutrienti e il genoma umano”, racconta Giorgio Morelli, primo ricercatore dell’Inran. “Siamo parte della European Nutrigenomic Organization, rete che promuove ricerche per capire il ruolo della variabilità individuale in campo alimentare. Un giorno sarà possibile mettere a punto la dieta più adatta al proprio Dna”.

Insomma, è difficile parlare dell’Inran come di un “ente inutile”. È vero, però, che la ricerca in questi anni ha sofferto di una progressiva riduzione dei finanziamenti. “Oggi il budget erogato dal Mipaaf, pari a circa 3 milioni di euro, non è sufficiente neppure per pagare gli stipendi, bollette e spese di gestione. Per il 2012 l’ente ha un buco di 5 milioni di euro, su un bilancio complessivo di 21 milioni, e non ci sono fondi ad hoc allocati per la ricerca. Siamo in una situazione paradossale”, prosegue Morelli. “Senza fondi, non ci può essere programmazione dell’attività di ricerca e si perde di competitività”. Altra nota dolente: le mani della politica sulla ricerca. Dopo il commissariamento dell’Inran, ai vertici sono stati nominate solo persone non competenti in materia.  A partire dal Presidente, Mario Colombo, professore di entomologia agraria a Milano, esperto di api, coleotteri e zanzare, nonché assessore della Lega a Como. E non c’è neppure l’ombra di un nutrizionista nel Consiglio Scientifico, dove siedono un infettivologo ed ex politico, già Presidente del Cra.

Il problema, allora, non è solo salvare l’Inran, per il quale è già scattata una raccolta firme. Si tratta di rilanciarlo. “Per risparmiare si potrebbero integrare le risorse umane e scientifiche di altri istituti impegnati in questo campo, come Cnr e Università, attualmente sparsi su più ministeri. Potremmo portare un contributo ancora più importante alla collettività a costi più bassi”, è la proposta di Morelli. “Ma la premessa, di base, è che il mondo politico comprenda l’importanza strategica di questo settore”.

Abbiamo chiesto delucidazioni al Ministero dell’agricoltura. Aspettiamo di sentire cosa ne pensano.

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