CULTURA

“Piuttosto che un attimino” (parte II)

CULTURA – (Ecco la seconda parte dell’intervista a Valeria Della Valle, docente di Linguistica italiana alla “Sapienza”, Università di Roma. Qui trovate la prima)

Chi ha il potere di dire che una forma considerata un tempo errore si è trasformata a tal punto da essere corretta?

I linguisti non danno indicazioni, non dicono cosa sia corretto e cosa sia invece un errore. Nel nostro lavoro noi crediamo in una grammatica descrittiva e non normativa. Di conseguenza possiamo dire che il nostro compito è quello di osservare come è fatta la lingua in uso, analizzando le caratteristiche esistenti e le differenze tra parlato e lingua scritta, senza dare indicazioni in merito. Quello che ho appena detto è tuttavia vero solo in parte, visto che nei testi di grammatica vi sono regole e norme.

Un caso celebre è la discussione sull’uso del congiuntivo: esiste sempre qualcuno che dice che il congiuntivo è morto, trascinando nel baratro con questa affermazione anche tutta la lingua italiana. In realtà l’uso anomalo del congiuntivo è sempre esistito già in Dante e in Leon Battista Alberti. Oggi assistiamo a una tendenza alla semplificazione e quindi a un utilizzo più disinvolto dell’indicativo rispetto al congiuntivo: “penso che tu hai ragione, penso che tu hai sbagliato”, invece di “penso che tu abbia sbagliato”. In realtà si tratta di un uso tipico del parlato che si è diffuso anche nella forma scritta. Ed è un fenomeno che riguarda tutte le lingue, senza che tuttavia si possa parlare di morte del congiuntivo.

Perché vi sono questi cambiamenti?

Si tratta di un processo di semplificazione delle lingue che dà origine agli esempi sui downtoners citati da De Smet e alle cosiddette espressioni stampella che dalla lingua parlata si sono trasferite alla lingua scritta. In italiano abbiamo “diciamo”, “è vero”, “cioè”, espressioni utili solo per procedere con il discorso. Gli inglesi invece dicono spesso “I mean”, “I know”, e la stessa cosa avviene nel tedesco, nello spagnolo e nel francese.

Mi può citare qualche esempio di “deriva linguistica” in italiano?

Negli ultimi vent’anni si è diffuso nel parlato un diminutivo che non ha alcun senso: “un attimino”.

Innanzitutto perché “un attimo” indica già una porzione breve di tempo, e poi perché viene utilizzato con un significato sbagliato – ed ecco che anche io divento normativa – ossia in situazioni e contesti che non hanno a che fare con il tempo come “un cappuccino un attimino caldo”, “alza un attimino il volume”, “una gonna un attimino stretta”. Forse “un attimino” è stato usato per la prima volta nelle sale di attesa, per comunicare ai clienti o ai pazienti che non avrebbero dovuto aspettare ancora per tanto tempo, e poi l’abitudine si è diffusa a tal punto che forse in futuro il suo uso ora improprio sarà considerato corretto.

Dal nord inoltre si è propagato un uso scorretto di “piuttosto che”, che significa “invece di” e può indicare quindi solo una sostituzione, lasciando  che si radicasse l’abitudine di usarlo come se fosse “o”, quindi una disgiunzione. I linguisti chiamano questo fenomeno “snobismo”, o “parola di plastica” e spesso si tratta di forme difficili da estirpare una volta che hanno preso piede.

Come nascono questi cambiamenti e qual è la loro origine?

Noi linguisti non sappiamo come nascano questi cambiamenti, ed è raro se non impossibile sapere chi per primo li introduce e ne permette poi la diffusione e l’evoluzione, soprattutto nella forma orale. È possibile tuttavia conoscere quale sia la prima testimonianza scritta di un costrutto, di un termine, di una funzione grammaticale. Oggi il lavoro è reso più semplice grazie alla presenza di archivi elettronici nei quali riusciamo a risalire a quella precisa forma usata per la prima volta, per esempio nel Corriere della Sera o su La Stampa. Sappiamo inoltre che questi cambiamenti nascono dalla tendenza a usare sempre le stesse formule introduttive anche con valori diversi secondo un principio di economia e semplificazione. Nel caso di “piuttosto che” la spinta potrebbe essere stata data dall’intento di impressionare e dall’ambizione di poter utilizzare una lingua sostenuta, con un certo tono: sebbene usare queste forme non dia nessun prestigio, scatta in molti il fenomeno dell’imitazione, soprattutto se utilizzate spesso da chi si esprime attraverso un mezzo pubblico come la tv.

Qual è stato il ruolo della televisione nei cambiamenti linguistici? Qual è il suo ruolo attuale?

La lingua nazionale attuale con la quale ci esprimiamo è frutto, per una buona parte, della tv delle origini, che alla fine degli anni ’50 è arrivata in tutte le case. Mike Bongiorno si esprimeva in una lingua semplice e corretta sfruttando trasmissioni molto popolari. Il maestro Manzi nel programma “Non è mai troppo tardi” faceva delle vere e proprie lezioni di italiano. Nella tv attuale invece possiamo dire che esiste di tutto: sia trasmissioni in cui si contribuisce a diffondere una lingua buona e corretta, sia trasmissioni nelle quali si diffonde una lingua non tanto e non solo sbagliata, ma soprattutto banalizzata: espressioni come “alla grande”, “a 360 gradi”, “ok”, “cioè” e “un attimino”, continuando con “dai”, “troppo forte”, “non esiste”, “tipo che”, ecc. .Questi modi di dire vengono assorbiti dai parlanti e il loro abuso porta la nostra lingua a perdere in ricchezza e varietà.

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