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Nessun uomo è un’isola…oppure sì?

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Questo post fa parte del VII° Carnevale della biodiversità, il cui argomento è “L’isola che c’è”. Il Carnevale è ospitato da Marco Ferrari, sul suo blog Leucophaea, dove potete trovare anche tutti gli altri contributi

Nessun uomo è un’Isola,

intero in se stesso.

Ogni uomo è un pezzo del Continente,

una parte della Terra.

Se una Zolla viene portata via dall’onda del Mare,

la Terra ne è diminuita,

come se un Promontorio fosse stato al suo posto,

o una Magione amica o la tua stessa Casa.

Ogni morte d’uomo mi diminusce,

perchè io partecipo all’Umanità.

E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:

Essa suona per te.

— John Donne, Meditation XVII

Questi versi di John Donne costituiscono un meme di indubbio successo (questa versione è un semplice copia incolla da uno dei primi siti suggeriti da google), ma fuori dalla sfera mistica non hanno molto senso. Ogni persona è un’isola (o, meglio, un arcipelago) per i dominatori del pianeta: i microbi.

Un’isola per la biologia ha un significato più profondo da quello geografico. Ogni volta che su una porzione limitata di territorio abbiamo organismi che si trovano in condizioni di isolamento, abbiamo un’isola. Risolviamo la tautologia introducendo la genetica: per isolamento intendiamo un flusso genico ridotto o assente da e verso l’isola per ogni (o quasi) specie che vi abita. Quindi anche un lago rispetto ad alcune specie che ospita è un’isola. Un albero in mezzo a un campo, la cima di una montagna, un’oasi nel deserto sono tutte isole anche se non sono delimitate dal mare.

Torniamo agli esseri umani. Avete mai pensato che la vostra flora batterica è, di fatto, ben isolata da quelle dei vostri conspecifici? Alla scala di osservazione del microbioma, per batteri e protozoi ognuno di noi è come un’isola. Persino la terminologia ce lo suggerisce: nell’attesa che si aggiornino anche le pubblicità degli yogurt, nella letteratura scientifica da flora si è passati a biota, un termine tipicamente applicato all’ecologia che identifica un’associazione di organismi tipica di un territorio e di un intervallo temporale: ogni giorno, sulle nostre mucose si consuma la lotta per l’esistenza.

Lasciando il linguaggio da documentario, ci sono prove di questa singolare forma di insularità? Esistono, ad esempio, equivalenti microbiologici dei “fringuelli” (che fringuelli non erano ma questa è un’altra storia) di Darwin? Sì, grazie allo studio del microbioma, cioè il genoma (metagenoma) di quei 100 miliardi di cellule “estranee” che ci portiamo appresso. Lo studio del microbioma è diventato mainstream per ragioni mediche: siano simbionti o parassiti è importanti conoscere sia i nostri ospiti che quelli per cui siamo noi, gli ospiti. Si è scoperto che il metagenoma di un individuo è caratteristico: se a Geospiza occorrono centinaia di migliaia di anni per diventare caratteristici della propria isola, gli Escherichia coli, ad esempio, si duplicano ogni poche ore nel ventre di ogni essere umano del pianeta. Il risultato è che il nostro microbioma, non solo quello dell’intestino, ma anche della bocca e della pelle è caratteristico, personale o, visto che parliamo di isole, endemico.

Anche per questo lo studio del microbioma è diventato così importante nella ricerca medica: per la medicina personalizzata il “nostro” DNA non basta più, dobbiamo conoscere anche quello di tutti gli altri che ci portiamo intorno.

Il Progetto Microbioma Umano si propone appunto di fare per il microbioma ciò che il Progetto Genoma Umano ha fatto per il genoma umano: sequenziare con metodo il materiale genetico che si trova nelle principali “nicchie” dell’isola umana (oltre a intestino e pelle, cavità orale, vaginale, nasale e polmonare) e costruire una banca dati in modo tale da fornire un sistema di riferimento globale per il loro studio.

La prima bozza è stata pubblicata quest’estate attraverso decine di articoli congiunti sulle principali riviste di settore, da Plos a Nature, e già a quel punto è stato chiaro che il microbioma umano è più complicato (e quindi più interessante) di quanto ci si aspettasse: non solo sul nostro corpo ognuna di queste nicchie presenta combinazioni di specie diverse da quelle di un’altra a pochi centimetri, ma le stesse nicchie sono anche radicalmente diverse da un individuo all’altro. A livello genetico, di specie, di comunità, la biodiversità è altissima.

Una delle ultime ricerche* riguarda il biota dell’nostro intestino. I ricercatori hanno prelevato campioni fecali da 207 adulti sani proveniente dal Europa e Nord America, per un totale di 252 metagenomi sequenziati. Il numero di metagenomi eccede quello degli individui perché per alcuni il campionamento è stato ripetuto due o anche tre volte.

101 le specie identificate secondo le banche dati, ma le sorprese sono a livello ecologico: le popolazioni batteriche individuate in un campionamento sono ben riconoscibili anche in quelli successivi. La numerosità delle specie può cambiare, ma a livello genetico le mutazioni (SNP, Single Nucleotide Polymorphism, dove cioè cambia un solo nucleotide), sono ben conservate.

Un altro dato interessante è che invece, almeno per i ceppi principali, la distanza geografica a larga scala sembra molto meno rilevante: nel complesso le budella di Nordamericani ed Europei non hanno ecosistemi così differenti. Anche dieta, stile di vita e genetica (di H. sapiens ovviamente) a questa scala di osservazione sembra non influenzare molto l’evoluzione delle popolazioni microbiche. Come si spiega? Una delle spiegazioni proposte è anch’essa declinabile pensando agli individui come isole: riceviamo sì i primi colonizzatori alla nascita (anzi, prima), ma il trasferimento orizzontale rimane, cioè nuovi inquilini, con il loro bagaglio genetico, arrivano dall’ambiente esterno in quantità sufficiente a “livellare” le differenze che tra un continente e l’altro che i ricercatori si aspettavano di trovare.

A sua volta la stabilità potrebbe essere spiegata appunto con la deriva genetica: come un piccolo gruppo di uccelli che approda su un’isola vulcanica, i primi batteri che colonizzano un individuo non sono rappresentativi della popolazione dalla quale provengono, e gli individui delle generazioni successive saranno più uniformi tra loro.

Scrivono gli autori:

This model suggests that the source of genetic variation in human gut microbial populations is less likely to be new mutations within the host than the variation in the initial colonizing populations or transmissions from the environment.

This would imply that most allelic variants analysed in this study segregate at timescales greatly exceeding human generation time.

Questo modello suggerisce come più probabile che le variazioni genetiche nelle popolazioni di microbi intestinali derivi dalle popolazioni colonizzatrici, piuttosto che da nuove mutazioni all’interno dell’ospite

Questo implica che la maggior parte delle varianti analizzate in questo studio segregano a scale temporali che superano di gran lunga quella di una generazione umana.

Sì, ogni uomo è un’isola, non un “pezzo di Continente”: quando muore porta con sé  microecosistemi unici, forse addirittura irripetibili, ma per il mondo dei microbi è una perdita più che accettabile.

*Schloissnig S, Arumugam M, Sunagawa S, Mitreva M, Tap J, Zhu A, Waller A, Mende DR, Kultima JR, Martin J, Kota K, Sunyaev SR, Weinstock GM, Bork P., Genomic variation landscape of the human gut microbiome. Nature. 2013 Jan 3;493(7430):45-50. doi: 10.1038/nature11711.

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Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, mi sono formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrivo abitualmente sull’Aula di Scienze Zanichelli, Wired.it, OggiScienza e collaboro con Pikaia, il portale italiano dell’evoluzione. Ho scritto col pilota di rover marziani Paolo Bellutta il libro di divulgazione "Autisti marziani" (Zanichelli, 2014). Su twitter sono @Radioprozac