JEKYLL

Il mese della paleoantropologia

AustralopithecusJEKYLL – Dimenticatevi la classica marcia del progresso da esseri scimmieschi pelosi e ingobbiti fino agli esseri umani attuali, belli e perfetti quale epilogo finale di un’evoluzione lineare. L’evoluzione non segue un tracciato già prestabilito, ma procede a tentoni, fra prove ed errori nel suo cammino cosparso di bivi. Più passa il tempo e più ne prendiamo coscienza, mentre emergono di continuo nuove tracce del nostro passato nel record paleontologico. Quest’ultimo mese ha portato con sé importanti novità nella paleoantropologia, lo studio dei nostri antenati. Sono ben quattro i protagonisti del momento: quattro diverse specie che ci raccontano altrettanti capitoli dell’evoluzione umana.

L’antenato del genere Homo

La prima è anche la più antica del gruppo, nonché una delle prime in grado di scrivere la storia degli ominidi. Australopithecus sediba, è questo il suo nome, fa parte di quel gruppetto di specie che si contende un posto d’onore alle radici del nostro albero evolutivo. Scoperta di recente in Sudafrica, ha fatto molto parlare di sé negli ultimi anni, e nel mese di aprile si è guadagnata la copertina di Science. A. sediba mostrava sin dall’inizio una singolare combinazione di caratteri “scimmieschi” e di tratti più “evoluti”, in comune con i primi membri del genere Homo. I sei studi pubblicati su Science, coordinati dal paleoantropologo Lee Berger dell’Università di Witwatersrand, confermano e arricchiscono il quadro già tracciato negli anni scorsi: questa specie, risalente a 1,8 milioni di anni fa, era un vero e proprio “mosaico” evolutivo. A fronte di tratti morfologici tipici delle australopitecine più antiche, come la famosa Lucy, esibiva anche caratteristiche che ritroviamo nei nostri diretti antenati, come Homo habilis. Le braccia erano ancora scimmiesche, da “brachiatore” adatto a una vita ancora in parte arboricola. La gabbia toracica aveva la forma svasata a imbuto tipica delle australopitecine, e anche il piede aveva una forma diversa dalla nostra, indice di una deambulazione bipede diversa da quella di qualsiasi altro ominide. Altri distretti anatomici rivelano però importanti affinità con ominidi più recenti. A giudicare dai risultati degli studi, è soprattutto la morfologia dei denti a mostrare le maggiori somiglianze con il genere Homo. Le somiglianze, secondo i ricercatori coinvolti, sono significative, e suggerirebbero che la specie abbia avuto un ruolo di primo piano nel nostro cammino evolutivo. “A mio avviso”, dichiara Berger, “A. sediba mostra così tanti tratti simili a Homo che deve almeno essere considerato come uno dei possibili antenati del nostro genere”.

Il cervello dello hobbit

Il secondo protagonista del mese proviene dal Sudest asiatico, e in particolare dall’isola di Flores, in Indonesia. E’ un omuncolo di dimensioni minuscole, tanto da meritarsi il nomignolo di ‘hobbit’ di Flores. La sua taglia ridotta è un effetto collaterale di un processo diffuso in natura: l’evoluzione insulare, la quale provoca tipicamente una cospicua miniaturizzazione delle specie di dimensioni grandi e medie e un aumento di taglia nelle specie più piccole. Il risultato è un appiattimento delle differenze di grandezza fra le varie specie, con elefanti grandi come bufali e topi delle dimensioni di un castoro. Gli hobbit di Flores, Homo floresiensis, erano alti come un bambino di otto anni e avevano un cervello grande come quello di uno di tre. E’ ciò che emerge dal recente studio guidato da Yousuke Kaifu del National Museum of Nature and Science in Tokyo, e pubblicato sulle pagine del Proceedings of the Royal Society B. La capacità cranica del piccolo ominide è stata infatti finalmente misurata con precisione: 426 cc. Il cervello degli adulti di questa specie era dunque grande all’incirca come un’arancia, e più piccolo persino di quello di uno scimpanzé. Un cervello molto piccolo se confrontato non solo con il nostro, che è grande tre volte tanto, ma anche con gli altri ominidi che abitavano il pianeta nell’epoca in cui visse lo hobbit di Flores (tra 95.000 a 13.000 anni fa). Le dimensioni stimate in precedenza erano però ancora minori, intorno a 400 cc. Lo scarto può non sembrare elevatissimo, ma per i ricercatori è sufficiente a costringerci a rivedere le ipotesi sull’origine di questa specie. Secondo le opinioni più in voga, gli antenati di H. floresiensis dovevano essere ominidi molto antichi, con un cervello ridotto: si fa spesso riferimento a H. habilis o addirittura alle australopitecine, giunti dall’Africa in un momento precoce della preistoria umana. Kaifu e colleghi sono però convinti che l’antenato sia da individuare in H. erectus, una specie dotata di un cervello più sviluppato, insediatasi in Indonesia già oltre un milione di anni prima. “La nostra ricerca”, spiega Kaifu, “ipotizza che, contrariamente a quanto sinora teorizzato da molti ricercatori, Homo erectus sia migrato da Giava verso Flores per evolversi nel nano Homo floresiensis. L’evoluzione del genere Homo è caratterizzata dall’aumento delle dimensioni del cervello e del corpo, ma questa specie suggerisce che queste caratteristiche possono essere flessibili, e che potrebbero essersi evolute nella direzione opposta”.

L’ibrido Sapiens-Neandertal

Da uno studio a cui hanno preso parte anche vari ricercatori italiani giunge il terzo protagonista. Si tratta in realtà di un unico osso, una mandibola fossile scoperta nelle grotte dei monti Lessini, nel veronese, ma potrebbe rappresentare il primo esemplare noto di ibrido Sapiens-Neandertal. Il ritrovamento risale ormai al lontano 1957, ma un reale interessamento per il reperto inizia solo nel 2006, con la rivisitazione delle collezioni del Museo di Storia Naturale di Verona. E’ qui che Silvana Condemi, antropologa fisica dell’Università di Marsiglia e David Caramelli, genetista dell’Università di Firenze, analizzano numerosi frammenti ossei, che attribuiscono alla specie H. neanderthalensis, i nostri più stretti cugini. Le ricerche da allora sono continuate, fino alla recente pubblicazione sulle pagine di PLOS One delle analisi di un reperto particolare, una mandibola risalente a circa 40.000 anni fa. L’osso presenta una forma simile a quella di H. sapiens, con un mento marcato e non sfuggente, ma alle analisi genetiche ha rivelato un DNA di stampo neandertaliano. Le affinità tra le due specie sono forti, e negli ultimi anni è stata anche dimostrata l’esistenza di una piccola percentuale di DNA in comune, probabile segno di incroci avvenuti in passato. Nessun ibrido è mai stato però identificato con certezza finora. La mandibola dei Lessini potrebbe, secondo i ricercatori, rappresentare la primissima prova tangibile in nostro possesso. Possiamo addirittura identificare con precisione chi erano i suoi genitori, come spiega Caramelli. “Ciò che sappiamo, visto che l’analisi riguarda il DNA mitocondriale, che si trasmette per via materna, è che l’incrocio fu tra un Homo sapiens maschio e un Neandertal femmina.

La storia genetica degli europei

L’ultimo capitolo della nostra rassegna riguarda la nostra stessa specie, e occorre fare un salto nel tempo fino al Neolitico: sulle pagine di Nature Communications è stato pubblicato il primo compendio dettagliato della storia genetica degli europei, frutto del lavoro di un team australiano, guidato da Paul Brotherton e Wolfgang Haak dell’Australian Centre for Ancient DNA. Dallo studio del DNA mitocondriale di 39 scheletri umani vissuti in Germania tra 7500 e 2500 anni fa emerge che il genoma europeo è più recente di quanto si pensasse, e deriva soprattutto da un evento ignoto avvenuto all’incirca 4.500 anni fa. Le tracce delle nostre origini sono scritte soprattutto sull’aplogruppo H, una combinazione di mutazioni presente nel 45% degli europei attuali. In passato si pensava che la diffusione di questo aplogruppo fosse avvenuta alla fine dell’ultima era glaciale, circa 12.000 anni fa, a seguito di una forte esplosione demografica. Lo studio di Brotherton e colleghi rivela uno scenario diverso: la popolazione europea odierna sarebbe il risultato di diverse ondate migratorie succedutesi tra circa 7500 anni fa e 4500 anni fa, quando si verificò una diffusione rapida di nuovi tipi di aplogruppi H, che rimpiazzarono quelli precedenti. E’ il segno di una sostituzione completa della popolazione europea, che fu causata da un evento sconosciuto, forse un cambiamento climatico o un’epidemia.

Immagine di apertura: ritratto del cranio di A. sediba, (Wits University)

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