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AIDS, un cauto ottimismo per la cura

hivSALUTE – Si è conclusa con qualche ottimismo la settima conferenza della International AIDS Society a Kuala Lumpur, dedicata a patogenesi, trattamento e prevenzione dell’HIV.

Fino a pochi mesi fa si contavano nel mondo soltanto due persone ufficialmente curate dall’HIV.
Il primo caso riguarda Timothy Ray Brown, noto come il paziente di Berlino. Malato di leucemia e colpito dal virus dell’HIV, il suo trattamento ha suscitato un grande dibattito quando i medici hanno presentato la storia della sua cura in una conferenza del 2008. Dopo aver ricevuto un trapianto di midollo osseo come trattamento per la leucemia, il paziente non è stato liberato soltanto da questa malattia: nel suo sangue non è stata più trovata traccia dell’HIV, anche dopo che il paziente ha smesso di assumere farmaci contro il virus. Sei anni dopo il trapianto, Brown non avrebbe ancora mostrato segno di un ritorno dell’infezione.
Un caso diverso ha fatto parlare di sé lo scorso marzo, quando un neonato del Mississippi affetto da HIV è stato curato funzionalmente con un trattamento tempestivo di farmaci anti-retrovirali somministrati entro 30 ore dalla nascita. A 3 anni dalla cura il “Mississippi baby” appare ancora sano, pur avendo smesso di assumere farmaci.

I due casi potrebbero non restare a lungo isolati.
Due nuovi pazienti che hanno ricevuto un trapianto di midollo osseo per un tumore del sangue alcuni anni fa potrebbero essere considerati curati dall’infezione, se i risultati fossero confermati nei prossimi mesi. Presentando i loro casi alla conferenza di Kuala Lumpur, i medici che li hanno curati presso il Brigham and Women’s Hospital a Boston hanno testimoniato l’assenza di tracce del virus nel sangue dei pazienti anche dopo la sospensione dei farmaci, rispettivamente per 15 e 7 settimane (qui il video della conferenza stampa, dal minuto 14.04).
È ancora presto, sottolineano i medici, per parlare di una cura, e i pazienti dovranno essere monitorati per tempi molto lunghi. Il virus infatti potrebbe ancora trovarsi in alcune parti del corpo dei pazienti, come l’intestino o il cervello, che possono ospitare l’agente patogeno per decenni.
Il risultato è comunque interessante, anch7th IAS Conference on HIV Pathogenesis, Treatment and Prevention (IAS 2013), Kuala Lumpur, Malaysiae considerando una differenza significativa del loro trattamento rispetto a quello del paziente di Berlino. In quel primo caso le cellule trapiantate erano state selezionate con una particolare caratteristica: il donatore presentava infatti una mutazione in una proteina, la CCR5, fondamentale per l’infezione del virus dell’HIV. Le cellule trapiantate erano quindi considerate resistenti al virus. I due pazienti trattati a Boston, invece, non hanno ricevuto cellule con questa mutazione. Sarebbero stati i farmaci anti-retrovirali a difendere le cellule trapiantate dall’infezione, mentre una risposta auto-immune scatenata dal trapianto potrebbe aver eliminato le cellule infette dei pazienti.

In attesa che i casi vengano confermati, si apre ottimismo anche per il trattamento usato per il “Mississippi baby” per bambini nati infetti da madre sieropositive non sottoposte a terapia. Un largo studio sperimentale, finanziato dall’International Maternal Pediatric Adolescent AIDS Clinical Trials (IMPAACT), si propone di coinvolgere un gruppo di bambini nati da madri che non hanno ricevuto una terapia anti-retrovirale durante la gravidanza per verificare la possibilità di ripetere il successo del neonato del Mississippi. Lo studio, commenta Nature, non è del tutto privo di rischi. Una madre affetta da HIV che non si è sottoposta a terapia ha una probabilità del 15-30% di trasmettere l’infezione al neonato alla nascita. La diagnosi di HIV, tuttavia, potrebbe richiedere fino a 7 giorni. Un trattamento immediato dei bambini nati in queste condizioni, prima che ci sia il tempo necessario per verificare la presenza dell’infezione, comporta necessariamente anche il coinvolgimento di bambini sani, che subirebbero in questo caso i potenziali effetti collaterali del trattamento. La tempestività dell’intervento, d’altra parte, sembra essere fondamentale per poter eliminare il virus nei soggetti infetti.

Nei paesi a reddito basso o medio-basso si stima la presenza di circa un milione e mezzo di donne sieropositive incinte che avrebbero bisogno di un trattamento anti-retrovirale per evitare di trasmettere il virus ai propri figli. La percentuale di queste donne che hanno accesso alle cure è cresciuta in modo significativo negli ultimi anni: da un preoccupante 14% nel 2005, il dato è salito al 48% nel 2010 e al 57% nel 2011, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un risultato incoraggiante, ma ancora lontano dagli Obiettivi di Sviluppo del Millennio proposti dalle Nazioni Unite. Tra gli obiettivi, infatti, gli stati membri dell’ONU si erano impegnati a fermare entro il 2015 la diffusione dell’HIV e a invertirne l’attuale tendenza. Ci si era proposti, inoltre, di garantire entro il 2010 l’accesso universale al trattamento per tutte le persone infette, un risultato ancora lontano dall’essere raggiunto.

Maggiori informazioni nell’infografica interattiva.

Crediti immagine: Photo©International AIDS Society/Marcus Rose/Workers’ Photos
Infografica: Valentina Daelli

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