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Cent’anni di screening

10984117773_8634df2a2b_bSPECIALE DICEMBRE – L’1 dicembre scorso si è celebrata la giornata mondiale contro l’Aids, in cui sono stati presentati i dati Ecdc e Oms del 2012, che mostrano come l’anno scorso si siano registrate 31 mila nuove infezioni nel mondo, di cui 29 mila nel territorio europeo, l’8% in più rispetto al 2011. Pur nell’epoca degli screening e sebbene i governi promuovano misure di prevenzione sempre più a tappeto, l’Occidente dimostra dunque non aver fatto ancora definitivamente propria la necessità della prevenzione prima ancora della cura. Il concetto di screening però non è affatto una pratica recente, sebbene i primi tentativi si riscontino non più di cent’anni fa, nel periodo della Grande Guerra.

Contro la “Grande imitatrice”

Così William Osler, medico canadese vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo definiva la sifilide,  la malattia infettiva a prevalente trasmissione sessuale che prima della messa a punto degli antibiotici era una delle prime cause di morte tra la popolazione europea, specie fra quella femminile. A inizio Novecento per la prima volta un medico tedesco, August von Wassermann, elaborò un primo test diagnostico per l’accertamento della sifilide, la cosiddetta “reazione di Wassermann”, che facendo leva sulla presenza di specifici anticorpi è in grado di capire se un paziente è affetto o meno da Treponema pallidum, il microrganismo responsabile della sifilide.

Per la Grande Guerra

Il test di Wassermann però, anche se rappresenta il primo tentativo conosciuto di screening della storia, non fu assunto da alcuno stato come misura di prevenzione sanitaria di massa. L’occasione però non si dovette attendere a lungo e porta la data del 1914. In occasione del reclutamento massiccio di soldati per il fronte infatti, gli eserciti si resero conto che era necessario individuare e scartare gli individui con evidenti problemi psichiatrici. Nel 1917 vennero messi a punto i primi test specifici e verso la fine del conflitto, nel 1918, allo 0,5% dei soldati francesi fu impedito di arruolarsi nell’esercito. Nel frattempo gli studi sulla sifilide proseguirono oltreoceano, alla luce dei successi del dottor Wassermann, e proprio in occasione del primo conflitto mondiale gli Stati Uniti sottoposero al primo screening di massa anti sifilide i propri soldati, scoprendo tra di essi ben 750 mila infetti. Ancora una volta dunque, come più volte la storia dimostrerà nel corso del XX secolo, sono spesso  le ragioni militari a spingere l’uomo al potenziamento della ricerca scientifica.

In massa contro il diabete

Bisogna attendere la fine della Seconda Guerra Mondiale trent’anni dopo per assistere a uno screening di massa fornito alla popolazione civile  e questa volta ad essere messo nel mirino fu il diabete, patologia descritta per la prima volta da Areteo di Cappadocia nel I secolo d.C e che ancora oggi colpisce circa il 5% della popolazione mondiale.  Tra il 1946 e il 1947 infatti il Massachusetts promosse per la prima volta una campagna di prevenzione di massa contro il diabete mellito, basata sull’analisi delle urine.

“Nessuna donna deve essere dimenticata”

Nel frattempo enormi passi in avanti erano stati fatti nel campo della prevenzione per la donna. Nel 1943 infatti si ottennero i primi risultati positivi per l’individuazione delle donne a rischio di sviluppare un cancro del collo uterino, grazie agli studi del medico greco Georgios Papanicolaou, da cui deriva il famoso nome Pap Test. Entro pochi anni il Pap-test divenne un esame di routine negli Stati Uniti al suono dello slogan  “Nessuna donna deve essere dimenticata” tanto che ancora oggi le donne oltreoceano lo eseguono ogni anno, mentre in Italia rimane consigliato ogni tre anni dopo i 25 anni. Ma se il pap test ha ormai più di 60 anni, ben più recente è la diffusione dello screening mammografico, per la prevenzione del tumore al seno. I primi albori dello screening mammografico risalgono a cinquant’anni fa, esattamente al 1963, quando un team americano afferente all’Health Insurance Plan (HIP) mise a punto un sistema di controllo di un primo gruppo di circa 31 mila donne di età compresa tra i 40 e i 64 anni, proponendo loro uno screening annuale per quattro anni consecutivi, e di un secondo gruppo a cui veniva fornito solo un esame clinico, scoprendo dopo 18 anni di follow-up, una riduzione della mortalità per tumore mammario del 23% nel gruppo sottoposto a screening mammografico.

Oggi, la sensibilizzazione prima di tutto

Nonostante questi primi sessant’anni di successi, i maggiori passi in avanti nel campo della prevenzione sono avvenuti negli ultimi decenni, con lo svilupparsi delle tecniche radiologiche specie in campo oncologico e attraverso studi sempre più specifici riguardanti malattie infettive come l’Aids. In Italia, per esempio, nell’ambito dell’Intesa Stato-Regioni del 23 marzo 2005 è partito il Piano nazionale della prevenzione 2005-2007, che prevedeva un potenziamento degli screening oncologici, e che ha prodotto un dossier contenente le direttive per attuare programmi di  prevenzione a tappeto della popolazione, in particolare per quanto riguarda il cancro della cervice uterina, quello al colon retto e alla mammella. I risultati, esposti in un documento dell’Osservatorio Nazionale Screening, parlano chiaro: nel 2011 1.623.997 donne si sono sottoposte allo screening cervicale, il 41% del totale, 1.675.567 tra uomini e donne a quello colon-rettale e 1.462.926 donne allo screening mammografico, il 50% di quelle invitate. Quello che sembrano comunicare i dati è dunque  la necessità oggi di potenziare la fase di sensibilizzazione, in modo che la prevenzione diventi un’arma ancor più potente nella lotta contro malattie ancora mortali come il cancro.

Crediti immagine: PAHO (Pan American Health Organization) – WHO, Flickr

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.