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Chi, quanti e perché: tutti i dati della sperimentazione animale in Italia e Ue

http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Danio_rerio_GloFish-science_institute_aquaria_05.jpg?uselang=itCRONACA – Diminuisce il numero di animali impiegati per “scopi scientifici” in Europa: mezzo milione in meno nel 2011 rispetto al 2008. E lo stesso vale anche per l’Italia, nei cui laboratori sono stati utilizzati 82.500 animali in meno. Lo dicono i dati dell’ultimo rapporto della Commissione europea sulle statistiche della sperimentazione animale. Vale la pena dare un’occhiata, per capire meglio di che cosa parliamo esattamente quando parliamo di animali usati per la ricerca e la sperimentazione scientifica.

I dati assoluti, per cominciare. In Europa siamo passati dai 12 milioni di animali impiegati nei laboratori di industrie, università e centri di ricerca nel 2008 agli 11,5 milioni del 2011. Certo sono cifre ancora alte, ma la tendenza è netta e importante, soprattutto se si considera che nel 2005 (quando i paesi membri dell’Unione europea erano due in meno, con Romania e Bulgaria fuori dal gruppo), gli animali “sacrificati” per la ricerca erano ancora 12,1 milioni. E in Italia? Ebbene, siamo passati da poco più di 864 mila animali (2008) a poco meno di 782 mila (2011). Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di animali provenienti da allevamenti nel nostro paese o in altri paesi UE: solo una minoranza è “extracomunitaria” .

Ma perché i numeri scendono? «Per vari motivi, per esempio perché migliorano le tecnologie disponibili» commenta Giuliano Grignaschi, responsabile dello stabulario dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. «Oggi possiamo usare microTAC, ecocardiografi o strumenti per risonanza magnetica fatti apposta per i piccoli animali. Questo ci permette di seguire l’evoluzione di una malattia nello stesso individuo, mentre prima bisognava partire con un certo numero di soggetti e sacrificarne periodicamente uno per vedere come andavano le cose. Risultato: servono meno animali per ogni singola indagine». Ovviamente questo apparecchiature costano – circa 1,5 milioni di euro per una microTAC, più 30mila euro all’anno di manutenzione – e non tutti se le possono permettere. Però basta organizzarsi e alcuni dei centri che le ospitano offrono servizi d’indagine anche “conto terzi”.

Non è tutto: «Oggi molti test in vivo possono essere sostituiti da analisi in vitro» precisa Grignaschi. «Uno degli esempi più brillanti è quello del test per saggiare la presenza di tossine in molluschi bivalvi come cozze e vongole». Fino a poco tempo fa si preparava una sorta di frullato di un campione di molluschi e lo si iniettava in un topo: se moriva, significava che nei molluschi c’era qualcosa di strano. Ora invece si ottiene la stessa informazione con un’analisi chimica fatta direttamente sul “frullato”. «Altro esempio: tradizionalmente gli anticorpi venivano prodotti in vivo nei conigli, mentre oggi li si può sintetizzare in laboratorio».

Meno animali, dunque, ma quali? Il quadro italiano per il 2011  – tendenzialmente sovrapponibile a quello europeo – dice che si tratta soprattutto di topi, il 66%. Seguono ratti (19,8%), pesci (6,6%), uccelli (3,7%), più tutto il resto (porcellini d’India, conigli, uccelli, bovini, ovini, rettili, anfibi). Scimmie (cebi e cercopitechi): 450 in tutto (0,06%). Cani: 408. Gatti e scimmie antropomorfe: zero.  Una distribuzione che corrisponde a un imperativo codificato per legge (la 116 del 1992): scegliere sempre, a parità di efficacia sperimentale, la specie a più basso sviluppo neurologico. «Un parametro che potremmo definire come complessità dell’architettura neuronale» spiega Grignaschi. «L’ipotesi è a che a un minore sviluppo corrispondano minore consapevolezza e minore capacità di provare dolore. Per questo quando possibile si preferiscono addirittura gli invertebrati come i moscerini della frutta o i nematodi».

Poi, naturalmente, sulla scelta delle specie entrano in gioco anche altri fattori e uno sguardo all’andamento temporale permette di farsi un’idea più precisa. Dal 2002 a oggi, per esempio, l’impiego di topi è andato sistematicamente crescendo (erano il 50,4%), mentre è diminuito quello di ratti (erano il 40,8%). «Da un lato questi ultimi sono più grandi, più longevi, più difficili da manipolare e più costosi da mantenere rispetto ai topi» commenta Massenzio Fornasier, presidente della Società italiana veterinari animali da laboratorio. «Dall’altro, i ratti sono usati come modello soprattutto nell’ambito della ricerca sulle malattie cardiovascolari, mentre ultimamente il focus della ricerca medica si è spostato sulle malattie oncologiche e neurodegenerative, dove il modello d’elezione è il topo». A questo si aggiunga la maggiore conoscenza sul genoma murino, che rende più facile la modificazione genetica di topi rispetto ai ratti: in effetti, il report della Commissione europea sottolinea che c’è stato un incremente significativo dell’utilizzo di topi transgenici, soprattutto per la ricerca in ambito oftalmico, del metabolismo osseo e della fertilità.

A sorprendere, però, è soprattutto il boom di pesci (parliamo in particolare del piccolo pesce zebra, Danio rerio), passati nel nostro paese da circa 3000 individui nel 2002 (lo 0,32% del totale) a quasi 52.000 individui nel 2011 (il 6,6%). «I pesci costano poco, si sviluppano molto più rapidamente dei topi ed è facile ottenerne linee geneticamente modificate» spiega Giorgio Scita, direttore dell’unità di ricerca sui meccanismi di migrazione delle cellule tumorali presso l’istituto IFOM di Milano. «Per capirci: per fare un topo GM ci vogliono un anno di lavoro e circa 30-40 mila euro. Per un pesce  bastano un paio di mesi e una cifra che oscilla tra qualche centinaio e poche migliaia di euro». Non solo: grazie ai miglioramenti nelle tecniche di imaging, oggi è possibile seguire in diretta in modo semplice ed efficace, nei pesci, vari processi di sviluppo, come la crescita dei vasi sanguigni (angiogenesi). «Per questo sono molto utilizzati da chi si occupa di angiogenesi e di ricerca di composti antiangiogenetici».

Per chiudere uno sguardo alle applicazioni. Dove vengono utilizzati tutti questi animali? Il primato spetta alla ricerca di base in ambito biologico (53,8% dei casi in Italia e 46,1% in Europa), seguita da ricerca e sviluppo in medicina umana, veterinaria e odontoiatria (poco più del 18% in entrambi i casi). Tra l’altro, è da notare che sta aumentando nel tempo la proporzione di animali impiegati per studi di base, mentre diminuisce quella degli animali utilizzati in ambiti più applicativi: del resto, se vogliamo capire come funziona qualcosa non si può che studiarla direttamente. Da segnalare anche la lenta ma progressiva diminuzione dell’impiego in ambito tossicologico (in Italia siamo al 7,8% del totale, contro l’8,9% del 2005). Ambito in cui l’impiego dipende quasi esclusivamente da obblighi normativi: solo l’1,2% degli animali utilizzati per test tossicologici, infatti, lo sono al di fuori di specifiche richieste normative. Nel 2011, infine, nessun animale è stato utilizzato, in Italia e in Europa, per test tossicologici su prodotti cosmetici.

Insomma, è chiaro che 780 mila non è zero. E ancora meno lo sono 11,5 milioni. Probabilmente si può fare ancora meglio e di più, ma è altrettanto chiaro che lo sforzo della comunità scientifica a “fare a meno degli animali”, seguendo l’impegno delle 3R (replacement, reduction, refinement), c’è eccome.

Immagine: Karol007 / Wikimedia

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance