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HIV e AIDS in Italia: facciamo il punto

Tobias-AIDS-testCRONACA – “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”, cantava un poeta. Il fenomeno dell’AIDS in Italia sta cambiando: se il numero degli infettati dal virus dell’HIV negli ultimi decenni non è di molto diminuito, quello a cui stiamo assistendo oramai da anni è una lento ma progressivo passaggio da un target di individui infettati composto per circa  l’80% da da tossicodipendenti, a un 80% rappresentato da persone in salute e per la maggior parte eterosessuali che sono entrati in contatto con il virus tramite rapporti sessuali non protetti. Abbiamo tracciato una panoramica della situazione italiana della diffusione e del trattamento del virus dell’HIV in Italia con Laura Sighinolfi, responsabile dell’unità HIV-AIDS dellazienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Anna di Ferrara.

“Anzitutto, per ben comprendere la portata del fenomeno – spiega la Sighinolfi – va ribadito a gran voce che HIV non è sinonimo di AIDS. Infatti chi  contrae il virus dell’HIV e assume le terapie oggi disponibili può condurre una vita praticamente normale; diversa è invece la situazione dei malati di AIDS, la fase terminale della malattia, che rimane ancora oggi purtroppo mortale”. In Italia si stimano a oggi circa 100mila persone sieropositive, che hanno cioè contratto il virus dell’HIV, e il numero cresce di circa 3mila nuovi casi l’anno, anche se non è facile avere dei dati precisi sul numero di contagiati, data la scarsa adesione al test diagnostico.

Il problema principale dell’HIV infatti è che non dà segnali evidenti e i portatori possono vivere ignari della malattia anche per oltre 10 anni. Molto spesso nel momento in cui prende coscienza del proprio stato il paziente è oramai in un stadio avanzato. “Questa è essenzialmente la ragione per cui sarebbe importante che nel nostro paese ci si sforzasse per mettere in piedi una decisa e adeguata campagna di sensibilizzazione e di prevenzione su questo argomento” spiega la Sighinolfi. “La scarsa consapevolezza di essere portatori è deleteria per la diffusione del virus, che si propaga come una rete anche verso individui tra i più comuni. Quello che deve cambiare è dunque prima di tutto la mentalità della gente, deve maturare la consapevolezza che chiunque può contrarre il virus e a qualsiasi età” prosegue la dottoressa. “In Italia, ma più in generale in Europa, la maggior parte delle nuove diagnosi di infezione da HIV coinvolgono persone dai 35 ai 50 anni che conducono una vita regolare e che magari quindici anni prima durante una vacanza erano entrati in contatto con il virus senza rendersene mai conto, e che nel frattempo hanno contagiato la propria fidanzata o la propria moglie.”

Agire però non è semplice. In Italia in materia di HIV vige la legge 135/90 che regolamenta la tutela dei pazienti nei confronti di discriminazioni specie sul posto di lavoro, ma che al contempo vieta qualsiasi forma di screening di popolazione, il contrario avviene invece in un paese come gli Stati Uniti dove il test viene eseguito di routine al pronto soccorso. L’unica circostanza in cui vige lo screening di default è nei confronti delle donne in gravidanza, che assicura al 100% la nascita di un figlio sano anche da una donna sieropositiva.

“Lo screening di popolazione – spiega la Sighinolfi – trova contrarie anche  le stesse associazioni di pazienti sieropositivi, e questo avviene principalmente per due ragioni: primo perché  essi ritengono vi sia il rischio che a lungo andare la somministrazione del test diventi una prassi in alcuni contesti , es. per i datori di lavoro, e motivo di ulteriori discriminazioni.”

Le campagne di screening, però, anche se riguardano essenzialmente l’ambito sociale, potrebbero avere tuttavia una ricaduta economica tutt’altro che secondaria, agendo come strumento di contenimento   della infezione. “I farmaci necessari per la terapia nei sieropositivi e nei malati di AIDS, che vengono passati gratuitamente all’utenza, costano al sistema sanitario nazionale 60 milioni di euro ogni anno alla sola regione Emilia Romagna” spiega la dottoressa. Una persona contagiata infatti, se la sieropositività viene riscontrata in una fase non troppo avanzata, riesce a vivere in maniera quasi totalmente normale, convivendo con la propria terapia farmacologica costituita da semplici compresse, i cui effetti collaterali sono oggi molto diminuiti. Se invece non si parla più di HIV ma di AIDS, la situazione cambia e a questa terapia di base, è necessario aggiungere di volta in volta i farmaci necessari per curare le ulteriori infezioni causate dal virus, come polmoniti ecc.

“L’ideale – spiega la dottoressa – sarebbe affiancare alla sensibilizzazione al test un’adeguata campagna per l’uso corretto del preservativo, specie nei rapporti occasionali, e anche se si assumono già altri anticoncezionali come la “pillola”. Quello su cui spesso soprattutto i giovani non pensano è che il contagio può avvenire sia da uomo a donna, che da donna a uomo, seppur con una percentuale minore. È possibile contrarre il virus infatti sia attraverso il sangue e il liquido seminale, ma anche tramite il liquido vaginale, ragione in più per cui l’uso del preservativo è assolutamente da raccomandarsi”.

L’Italia però non è un’isola, e un buon piano nazionale per combattere il diffondersi del virus non è l’unico aspetto da tenere in considerazione. “In Europa oggi il maggior numero di nuove infezioni è nei paesi dell’Est Europa, l’ex blocco sovietico” conclude la Sighinolfi. “Sta accadendo lì esattamente quello che è accaduto qui negli anni Ottanta, anche se non è semplice avere una panoramica completa della situazione, perché i dati sono frammentari e le iniziative per cercare di attuare una qualche sorveglianza sono poche.”

Crediti immagine: Andre Engels, Wikimedia Commons

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.