CRONACA

Open Data: quando libertà è partecipazione

OpendataCRONACA – Giorgio Gaber in tempi non sospetti e con nota lungimiranza cantava “libertà è partecipazione”. Ma come declinare oggi questo concetto tanto trito e ritrito da essere spesse volte abusato, nello spirito di condivisione che caratterizza la società contemporanea, quella di internet e dei social network? Una possibile risposta, tanto filosofica quanto pragmatica è rappresentata dal movimento che va sotto il nome di “Open Data”, cioè dati aperti, liberamente consultabili e riutilizzabili da tutti, non solo da chi li produce, come le pubbliche amministrazioni.

Il progetto non è un’idea italiana. Open Knowledge Foundation, un’organizzazione no profit nata dieci anni fa a Cambridge per promuovere l’apertura dei dati, definisce gli open data in questo modo: “un contenuto o un dato si definisce aperto se chiunque è in grado di utilizzarlo, riutilizzarlo e ridistribuirlo, soggetto, al massimo, alla richiesta di attribuzione e condivisione allo stesso modo”. Open Data oggi però significa in realtà molte cose e non è facile definire in maniera netta i contorni che questo fenomeno sta assumendo da un anno a questa parte. Sabato 22 febbraio scorso si è celebrato in tutta Italia ma anche fuori l’Open Data Day, una giornata dove gruppi di persone si sono incontrate nelle varie città d’Italia, da sud a nord della penisola, per parlare di dati.

Ma che cosa si intende per “parlare di dati e soprattutto di open data oggi? Ce lo raccontano Alessio Cimarelli e Andrea Nelson Mauro, in arte dataninjas, che cercano di fare della passione per i dati una vera e propria competenza, per il cittadino ma anche per il giornalista. “Open Data oggi significa prima di tutto trasparenza – spiega Cimarelli – anche se i due termini non sono certamente sinonimi. Trasparenza nel senso di possibilità di partecipazione attiva della cittadinanza alle questioni che la riguardano, e che si fonda sul rilascio da parte delle amministrazioni dei dati che esse sfornano quotidianamente. I dati sono prodotti con le nostre tasse e proprio per questo appartengono al cittadino, a lui devono ritornare.”

Avere i dati dunque, deve significare prima di tutto divulgarli e la legge italiana da un anno a questa parte con il Decreto Legislativo del 14 marzo 2013, sembra lasciare pochi margini di movimento, sebbene da più parti sia emerso come la nostra stessa legislazione già da tempo avesse parlato di trasparenza in questo senso. “Il punto è che non è sufficiente che i dati vengano rilasciati dalle pubbliche amministrazioni, serve che siano resi pubblici in un certo modo, e qui la questione tecnologica non è certo in secondo piano” spiegano i dataninjas. Ci sono infatti due elementi che è importante tenere in considerazione: primo, la questione delle licenze, secondo il formato tramite cui i dati vengono divulgati. Per quanto riguarda la licenza, il problema sembra fondamentalmente risolto e in tutta Italia, anche grazie al decreto, si è fatta strada la mentalità secondo cui i dati veri e propri sono quelli riutilizzabili liberamente, senza alcun vincolo di copyright per l’utente. Riguardo invece al formato, la strada è ancora in salita.

“Molti uffici pensano che rilasciare dati in .pdf sia sufficiente per adempiere alla legge, e sulla carta lo è, ma non nella pratica” precisa Cimarelli. Rilasciare dati significa infatti trasformarli in formati su cui poi sia possibile lavorare per creare grafici, mappe interattive, visualizzazioni di ogni tipo, oltre alla possibilità di metterci mano per ragioni giornalistiche, a partire dal cosiddetto datajournalism. Per fare questo il .pdf non basta, servono documenti in .csv, .json o almeno nel classico formato excel, che tutti quanti, anche il semplice cittadino, sono in grado di manipolare. Perché sono i cittadini a essere prima di tutti i beneficiari di questo movimento, e al tempo stesso – meraviglie del postmoderno! – i promotori della “rivoluzione”.

Questo è evidente dalla geografia del “movimento open data”: non esiste un polo centrale da cui confluiscono le varie iniziative, ma ogni singola città d’Italia, da Palermo a Trento, passando per Matera, Napoli, Bologna, Milano e Torino può costituire una propria comunità di “civic hackers”. “Nel nostro paese il movimento si è coagulato intorno a comunità di cittadini appassionati di attivismo civico, il che rende evidente la radice iperlocale del fenomeno, un sistema a rete piuttosto che a piramide.” spiegano i dataninja. Un esempio di questa “rivoluzione dal basso” è SOD, che si legge Spaghetti Open Data, una delle più attive comunità di “opendatari” italiani, nata a Bologna da un gruppo di nerd-attivisti, come li definiscono gli stessi dataninja, interessati a specifiche tematiche sociali e territoriali e che si incontreranno dal 28 al 30 marzo prossimo proprio a Bologna per il secondo incontro, dopo l’esperimento ben riuscito dell’anno scorso.

Una nuova forma di educazione civica insomma, che fa uso della grande quantità di dati che vengono prodotti da sempre dalle amministrazioni – la produzione di dati da parte delle PA non è certo una prerogativa di questi ultimi anni – e delle tecnologie di cui disponiamo oggi, prima fra tutte la rete.

Crediti immagine: Auregann, Wikimedia Commons

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.