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“Chi semina cannabis raccoglie eroina”. Ma siamo sicuri?

800px-Cannabis_01_bgiuSALUTE – “L’aumento nel consumo di cannabis è chiaramente collegato a un futuro aumento del consumo di eroina, perché chi semina cannabis raccoglie eroina”. Queste le parole di Giovanni Serpelloni, direttore del dipartimento per le politiche antidroga del governo, in un’intervista sull’Huffington Post. Il dibattito non è certo recente: se molti pensano si tratti di un fattore puramente sociale, per il quale provata una tipologia di droga si cerca l’accesso ad altre, rimane forte la necessità di capire se vi sia invece un fondamento scientifico, anche per quanto riguarda gli effetti a lungo termine dell’utilizzo di cannabis. Ne abbiamo parlato con Elio Acquas dell’Istituto Nazionale di Neuroscienze (INN), esperto nella farmacologia delle sostanze d’abuso.

Scientificamente, ha senso equiparare droghe pesanti e leggere?

Equipararle presuppone che la distinzione sia del tutto accettata e condivisibile. In realtà rispecchia la necessità di semplificare e giustificare il minore impatto delle cosiddette droghe leggere. Questa distinzione rispecchia una visione ideologica, accolta anche da parte della comunità scientifica e avvalorata, probabilmente, dalla necessità di raggiungere una semplificazione nella comunicazione di massa. In questi termini dunque, come classificare l’alcool e la nicotina? Si può anche distinguere, allora, tra antidepressivi leggeri e antidepressivi pesanti? Scientificamente il problema è questo: le droghe sono sostanze psicoattive i cui effetti hanno un impatto sul cervello, oltre che sul resto dell’organismo, e questo impatto può essere di diversa entità in funzione di molti parametri, per primo la dose.

La popolazione è consapevole della differenza? Specialmente i giovani?

Non credo, perché il dualismo leggere/pesanti non è stato messo in discussione con un’energia proporzionale alla capillarità con cui lo si è invece lasciato consolidare nell’opinione pubblica. Tuttavia, tra i giovani che ho la possibilità di incontrare, prevalentemente studenti liceali e universitari di facoltà scientifiche, mi capita di trovare una certa distanza rispetto alla classificazione leggere/ pesanti tout court.

Quali sono le conseguenze dell’utilizzo di cannabis e quali quelle dell’utilizzo di eroina, anche a lungo termine? Sono comparabili?

Le conseguenze sono diverse nel breve e nel lungo termine. Nascono dal diverso profilo farmacologico dell’eroina rispetto ai principi attivi contenuti nella cannabis, principalmente il THC (delta-9-tetraidrocannabinolo). Tuttavia è documentato a livello centrale e a livello periferico un cross-talk, una comunicazione tra i sistemi endocannabinoide e oppioide, che si manifesta a livello biochimico e molecolare. Cannabis ed eroina inoltre condividono il potenziale di abuso, ovvero la capacità di dare dipendenza e la comparsa di una sindrome di astinenza.

Tuttavia non può essere fatta una comparazione diretta e quantitativa tra i livelli di utilizzo (quanto e ogni quanto tempo) di cannabis e quelli di eroina. La dipendenza psichica, accompagnata dal desiderio incoercibile della sostanza (craving), è la risultante di numerosi fattori (individuali, di contesto, qualitativi e quantitativi) che vanno molto al di là della dose e della frequenza di assunzione. Si potrebbe dire che se c’è “vulnerabilità” un’unica esperienza potrebbe essere determinante, a prescindere dalla sostanza. Questo si applica anche ad altri stimoli non farmacologici, come il gioco d’azzardo o lo skydiving. È valido invece il processo opposto: quello che dalla diagnosi di dipendenza, emessa secondo il soddisfacimento di criteri diagnostici del DMS V, potrebbe consentire di risalire alle condizioni di utilizzo che ne sono alla base.

Quanto è fondato, scientificamente, affermare che la cannabis è l’anticamera dell’eroina, come ha detto Serpelloni?

Talvolta lanciare un sasso nello stagno serve a scuotere le coscienze, e animare il dibattito su un argomento spesso trattato in maniera polarizzata. Il dipartimento per le politiche antidroga sta lavorando per colmare il gap d’informazione tra i progressi della comunità scientifica internazionale e la comunicazione di massa. Peraltro l’ipotesi della via di accesso, che contempla la possibilità che una precedente esposizione a sostanze possa agire quale fattore predisponente verso l’abuso e la dipendenza per altre, seppur criticata ha un suo fondamento e trova supporto in numerosi dati sperimentali. Rispetto a quest’ultimo aspetto, ovvero l’importanza di poter studiare le basi biologiche della dipendenza, dell’astinenza e della ricaduta in modelli animali, è curioso che in Italia, in controtendenza con l’Europa e gli Stati Uniti, si stia cercando di far approvare una legge che vieterebbe la sperimentazione animale con questa finalità.

Come agisce la cannabis nella cura del dolore? Possiamo considerarla una sostanza terapeutica?

La cannabis può certamente essere considerata una sostanza con potenziali applicazioni terapeutiche. Il THC agisce anche nella cura del dolore attraverso un’azione sui recettori cannabinoidi CB1 (ma recenti studi coinvolgono anche i recettori CB2) localizzati in strutture dell’encefalo e del midollo spinale coinvolte nella trasmissione delle informazioni dolorose. I recettori cannabinoidi sono parte del sistema endocannabinoide endogeno, che esercita i suoi effetti “analgesici” attraverso un’inibizione della trasmissione del dolore.

Tuttavia il tema della legalizzazione dell’uso della cannabis solleva discussioni di carattere ideologico, economico e di pubblica sicurezza. Andrebbe perciò affrontato separatamente da quello del suo utilizzo per finalità terapeutiche. Il rischio è, infatti, quello di confondere legalizzazione e liberalizzazione di una sostanza -il cui uso è soggetto a restrizioni-, con la possibilità di impiegarla per finalità terapeutiche dietro la prescrizione di un medico, e la dispensazione da parte di un farmacista.

Se e quando la cannabis diventa tossica per l’organismo?

Una sostanza esercita un’azione che definiamo tossica laddove determina la comparsa di effetti avversi per l’organismo. Una sostanza impiegata con successo a finalità terapeutiche può essere anche responsabile di tossicità. L’intossicazione da cannabis determina compromissione della memoria a breve termine, del coordinamento motorio e prolungamento dei tempi di reazione (causa di gravi incidenti stradali). L’esposizione cronica alla cannabis (con cronica si definisce un’esposizione ad un tossico per tre o più mesi),  è associata alla comparsa di disturbi a livello cardiovascolare, respiratorio e persino a livello del cavo orale e dentale.

Tuttavia la cannabis viene comunemente considerata innocua, rispetto all’eroina, perché priva del potenziale di dare morte per overdose. Un recente studio, tuttavia, ha documentato che l’intossicazione acuta da cannabis può essere responsabile di morte improvvisa per complicazioni cardiovascolari. Questo significa che talvolta osserviamo i fenomeni dalla prospettiva sbagliata, o senza gli strumenti adatti.

L’uso di cannabis, in un cervello giovane e non completamente sviluppato, può modificarne struttura e funzione. È vero?

Numerose evidenze scientifiche [PubMed, Frontiers in psychiatry, The american journal of psychiatry] documentano che l’esposizione alla cannabis, in particolare in età adolescenziale, può portare a gravi disturbi in età adulta. Il cervello in maturazione degli adolescenti è sicuramente un bersaglio privilegiato, al punto che è stato coniato l’acronimo CUD (Cannabis Use Disorders). Questi disturbi possono portare come conseguenza delle alterazioni nei processi di neurogenesi, differenziazione e sinaptogenesi. Queste conseguenze possono manifestarsi in un aumentato rischio a sviluppare disturbi motivazionali e affettivi oltre che importanti disturbi di natura psicotica.

Crediti immagine: Bogdan, Wikimedia Commons

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".