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I primi 50 anni della Red List delle specie in pericolo

3_en_redlist_rgb_sitoAMBIENTE – Era il 1964: il mondo era ancora suddiviso tra il blocco sovietico, appena preso in mano da Leonid Breznev che proprio in quell’anno divenne segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, e i Paesi della NATO, capeggiati dagli Stati Uniti al cui comando vi era da pochi mesi Lyndon Johnson, divenuto il 36esimo presidente dopo l’assassinio di John Fitzgerard Kennedy. Ma anche in Italia avvennero imponenti sconvolgimenti politici: moriva a Jalta Palmiro Togliatti e Giuseppe Saragat saliva al Quirinale come quinto presidente della Repubblica Italiana.

Oltre che un anno di forti avvicendamenti politici in tutto il mondo, il 1964 ha rappresentato anche una chiave di volta per la biologia della conservazione a livello globale: fu infatti istituita la ormai celeberrima Lista Rossa delle specie in pericolo dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura o IUCN, che quest’anno compie cinquant’anni. Partita in sordina, la Lista Rossa è diventata nel corso dei decenni il principale strumento informativo riguardo allo status di conservazione di animali e piante selvatici, divenendo un fondamentale mezzo per la valutazione delle priorità della conservazione delle risorse naturali sia a livello locale che globale.

Il funzionamento della lista è semplicissimo: sulla base di informazioni riguardo dimensione, isolamento e trend demografici delle popolazioni da un lato, ed estensione e variazione dell’habitat naturale dall’altro, la lista fornisce per ogni specie su cui sono stati raccolti i dati una categoria di rischio di estinzione (ecco i criteri). Si va dalle specie estinte a quelle non in sostanziale pericolo, passando per le specie che ormai sopravvivono solo in cattività a quelle che si trovano a diversi livelli di minaccia di estinzione.

Ogni anno migliaia di biologi, tassonomisti ed esploratori redigono precisi monitoraggi ambientali per stimare lo status delle specie naturali con uno sforzo che è esponenzialmente aumentato nel corso del tempo. Dalle poco più di 15.000 specie analizzate nel 2000, si arriva alle oltre 71.000 (grafico sul numero di specie analizzate nel tempo) dell’ultimo report, datato novembre 2013. Ma secondo i responsabili entro il 2020 saremo in grado di tracciare la situazione delle popolazioni naturali di almeno 160.000 specie differenti. Oltre ad assegnare a ogni specie il suo livello di rischio in un determinato momento, la lista consente di tracciare la variazione della situazione di animali e piante selvatici nel corso del tempo, come un vero e proprio Barometro della Vita.

Purtroppo questo sempre maggior approfondimento dell’analisi delle popolazioni naturali non sta facendo altro che sottolineare la preoccupante situazione in cui la maggior parte di esse si trovano: tra i gruppi tassonomici meglio studiati, infatti, emerge che tra il 10 e il 50 percento delle specie sarebbe a vario livello minacciata di estinzione. Come si può evincere da alcune eloquenti tabelle (animali, piante), ad esempio, tutti i gruppi animali e le piante di cui sono disponibili sufficienti dati se la passano ora decisamente peggio di un trentennio fa (si veda anche questo grafico). E i tassi di estinzione delle specie selvatiche vanno di pari passo.

Secondo la maggior parte degli esperti in biologia della conservazione, infatti, la velocità di estinzione di animali e piante è paragonabile, se non maggiore, di quella stimata dalle testimonianze fossili nel corso delle cinque imponenti estinzioni di massa avvenute dal momento in cui si originò la vita pluricellulare sulla Terra (circa 540 milioni di anni fa), eventi in seguito a cui scomparvero oltre la metà delle specie allora esistenti. A differenza delle precedenti, della sesta estinzione di massa, così viene chiamato il fenomeno in corso, sono tristemente note le cause, tutte legate all’impatto di una sola specie sull’ambiente. Questa specie è la nostra, Homo sapiens.

In che modo l’uomo sta distruggendo la biodiversità che lo circonda? Come suggerito dal grande biologo statunitense Edward Owen Wilson oltre un decennio fa, sono diverse le cause dell’attuale declino della biodiversità, che possono però essere riassunte con l’acronimo HIPPO, che racchiude nelle iniziali le principali pressioni antropiche. H con Habitat Loss, ovvero la perdita di ambiente naturale per far spazio a coltivazioni e insediamenti umani, fenomeno che va a eradicare la biodiversità che lì vi abita. I come Invasive Species, ovvero specie invasive introdotte, consapevolmente o no, in un ambiente in cui non si sono evolute con le altre forme di vita, tanto da proliferare in maniera incontrollata sterminando le specie indigene. P come Pollution, ovvero l’immissione nell’ambiente dei prodotti di scarto delle attività umane che vanno ad interferire con le funzioni biologiche dei viventi. P come Population, ovvero la continua crescita della popolazione umana, giunta ormai ai 7 miliardi di individui, che accentua tutte le fonti di pressione antropica sull’ambiente. O come Overharvesting, ovvero il sempre crescente prelievo delle risorse ambientali fino al loro completo depauperamento. A queste pressioni dirette se ne aggiunge un’ulteriore legata alla modificazione globale del clima, che va ad influenzare in vario modo la vita e la distribuzione delle specie viventi.

La Lista Rossa della IUCN compie cinquant’anni e l’associazione ha creato per l’evento diverse pagine celebrative, tra cui profili Facebook e Twitter. Per la situazione della biodiversità, da cui proveniamo e da cui dipendiamo interamente, c’è però molto poco da festeggiare.

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Andrea Romano
Biologo e giornalista scientifico, lavora come ecologo all'Università degli Studi di Milano, dove studia il comportamento animale. Scrive di animali, natura ed evoluzione anche su Le Scienze e Focus D&R. Dal 2008, è caporedattore di Pikaia - portale dell'evoluzione