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Bambini prematuri, imaging e neuroetica

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CRONACA – Sarà normale? Potrà andare a scuola? Potrà avere una vita soddisfacente? «Sono le domande che mi fanno ogni giorno i genitori di bambini prematuri. Domande alle quali spesso non ho risposta». A parlare è Petra Huppi, neonatologa dell’ospedale universitario di Ginevra, esperta di problemi nello sviluppo neurologico di bimbi nati prima del tempo. Huppi ha appena partecipato a Milano a un seminario speciale sui temi più caldi della neuroetica organizzato nell’ambito del FENS forum, il forum delle società europee di neuroscienze. Nel suo caso il tema caldo riguarda l’utilizzo di tecniche di neuroimaging (l’ecografia, la risonanza magnetica, la più sofisticata diffusion tensor imaging) per saperne di più sullo sviluppo del cervello nelle prime fasi della vita neonatale. Perché se è vero che possono dirci molto e aiutarci nella gestione dei bimbi prematuri (il 6-8% dei neonati in Italia, 12-15 milioni l’anno nel mondo) è altrettanto vero che presentano ancora qualche limite.

«Quando queste tecniche hanno cominciato a prendere piede, a partire dagli anni settanta, erano tutti contentissimi: poter guardare il cervello senza aprire la scatola cranica significava poter fare diagnosi che permettevano di guidare le decisioni terapeutiche e riabilitative» premette la neonatologa. La possibilità di prevedere lo sviluppo futuro di un bambino prematuro a partire dalle immagini del suo cervello sembrava a portata di mano. «Invece – precisa Huppi – abbiamo imparato che in molti casi predire il futuro è impossibile, perché ci sono di mezzo alcune straordinarie capacità del cervello in sviluppo, come la resilienza e la plasticità». In altre parole, a volte  possiamo sapere che c’è un danno cerebrale, ma non possiamo sapere che cosa comporterà per il bimbo che lo porta – se sarà “normale” o prima o poi mostrerà qualche ritardo cognitivo – perché il suo cervello potrebbe riorganizzarsi in modo da aggirare o correggere quel danno.

La distanza tra immagini con “difetti” del cervello messi nero su bianco e il loro significato clinico può farsi sentire in modo doloroso anche prima della nascita: a volte sono le ecografie di routine durante la gravidanza a rivelare che nel feto c’è qualcosa che non va, senza che si possa dire molto sulle conseguenze per la salute del bambino. Una condizione molto complessa per i genitori, che si trovano a decidere se interrompere o meno una gravidanza, senza avere certezze diagnostiche. «E in effetti ci sono coppie che decidono di non sottoporsi a questi esami, proprio perché non vogliono  trovarsi nella condizione di affrontare l’ignoto» sottolinea Huppi.

Che fare, allora, di tutte quelle immagini di cervelli che affollano la cartella clinica dei bambini prematuri? Sono inutili? «Decisamente no, e per due ragioni» risponde la neonatologa. «Intanto, perché in alcuni casi la previsione è possibile. E poi perché ci permettono di seguire nel tempo la plasticità del cervello che si sta sviluppando, valutando di volta in volta come vanno le cose e decidendo che cosa fare: se il bambino ha bisogno di riabilitazione, o se non richiede interventi particolari. In molti casi, possiamo riassicurare i genitori sul fatto che, pur essendoci un danno cerebrale, siamo in grado di aiutare i loro figli a svilupparsi al meglio».

Non solo: unite a valutazioni cliniche e psicologiche condotte negli anni, le tecniche di imaging permettono di chiarire quali sono i meccanismi neurologici che portano a ritardi cognitivi: il primo passo per cercare di correggerli o attenuarli. Nel suo intervento Huppi ha ricordato studi condotti con risonanza magnetica e diffusion tensor imaging sullo stato di connettività delle fibre nervose (cioè quanto sono collegate tra loro in aree differenti del cervello) in varie fasi dello sviluppo cerebrale, grazie alle quali sono stati identificati i “punti deboli” dei prematuri. Si è visto che in alcune zone del cervello, specie a livello della corteccia frontale, le connessioni nervose sono ridotte e indebolite, mentre in altre, specie nella zona temporale, sono aumentate: alterazioni che correlano con alcune forme di ritardo cognitivo e con limitazioni nella capacità di interazione sociale. «Non solo: si è anche capito che questa vulnerabilità ha molto a che fare con lo stress che vivono i prematuri in momenti molto precoci del loro sviluppo, durante il parto o nelle prime settimane successive».

Ma se c’è almeno una radice del problema, si può provare a individuare almeno una soluzione. Che per Huppi sta anche nella cosiddetta developmental care, un tipo di cura neonatale che punta a ridurre l’impatto stressante della permanenza nel reparto di terapia intensiva attraverso il coinvolgimento dei genitori. «Sappiamo che il contatto pelle a pelle con la mamma, la preferenza per certe posizioni, l’uso della musica, e in generale un arricchimento delle condizioni ambientali, migliorano gli esiti dei bambini prematuri. In effetti alcuni studi concludono che bimbi che seguono questo approccio mostrano a distanza di anni capacità cognitive migliori. E un migliore stato di connettività delle aree cerebrali».

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Immagine di apertura: César Rincon / Flickr

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance