WHAAAT?

Il ruolo delle balene nel cambiamento climatico

La conseguenza della presenza estesa di balene era una fitta distribuzione di nutrienti nelle acque che popolavano. Purtroppo la loro biomassa è andata crollando, principalmente a causa della caccia

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WHAAAT? Il venerdì casual della scienza – Se vi domandassero qual è il segreto per combattere il cambiamento climatico, è molto probabile che la prima risposta a venirvi in mente non sarebbe “le balene”, o ancora meno “le feci di balena”. Tuttavia dovrebbe. L’accurata revisione di decenni di studi sulle grandi balene e sul loro stato di conservazione ha infatti portato gli scienziati non solo a confermare che svolgono un ruolo fondamentale nell’ambiente, ma che la ripresa delle popolazioni potrebbe rappresentare la chiave per far risollevare gli ecosistemi marini dallo stress, da attribuirsi, tra le varie cause, anche al cambiamento climatico (principalmente a causa dell’acidificazione degli oceani e dell’aumento delle temperature). Lo ha spiegato un recente studio su Frontiers in Ecology and the Environment.

Come osserva il biologo conservazionista Joe Roman dell’Università del Vermont, leader della ricerca, “le balene sono state considerate a lungo degli organismi troppo rari per poter fare la differenza nell’oceano”. Chiaramente si trattava di un presupposto errato (oltre al fatto che se sono poche è solamente colpa nostra), ma non ce ne siamo resi conto fino a quando Roman e il suo team hanno scoperto che la differenza invece la fanno, ed è enorme. Il crollo del numero di molte specie di grandi balene, infatti, ha determinato un’alterazione funzionale degli oceani stessi. Prima che gli esseri umani cominciassero a cacciarli, questi cetacei mangiavano grandi quantità di pesci e invertebrati, fungendo poi loro stessi anche da prede e nutrendo per esempio le orche.

La diretta conseguenza della presenza estesa delle balene era un’enorme distribuzione di nutrienti in tutte le acque che popolavano, facendo proliferare gli organismi a partire dal fitoplankton e, di conseguenza, contribuendo in modo significativo all’assorbimento del carbonio di origine antropica. La caccia intensiva che ha interessato molte specie di cetacei, dunque, potrebbe aver contribuito concretamente a un’accelerazione dei fenomeni di cambiamento climatico. Le stesse carcasse degli esemplari morti, una volta depositate sul fondale, diventano tuttora il prezioso habitat di molte specie che continuano a sopravvivere proprio in loro funzione, grazie ai corpi in decomposizione. Si tratta di decine di specie, forse centinaia. La biomassa delle grandi balene, tuttavia, è andata crollando principalmente a causa della caccia a scopi commerciali, che nel 20esimo secolo le ha quasi portate all’estinzione.

“Ora che le megattere, le balene grigie, i capodogli e altri cetacei iniziano a riprendersi dopo secoli di caccia estrema, possiamo osservare come svolgano un compito fondamentale negli oceani”, spiega Roman. “Tra i vari ruoli ecologici che coprono, le balene riciclano i nutrienti e promuovono la produttività primaria nelle aree in cui si nutrono”. Questo avviene in quanto si cibano in profondità, per poi rilasciare le feci più in prossimità della superficie. I nutrienti, per di più, grazie a loro vengono trasportati anche a migliaia di chilometri di distanza. Viene da sé che le stesse risorse ittiche fondamentali per la sopravvivenza dell’industria della pesca traggono beneficio dalla sopravvivenza e prosperità delle balene; una conoscenza importante dato che a lungo, spiegano i ricercatori, i pescatori hanno considerato questi cetacei quasi come dei concorrenti che sottraevano loro il pesce.

Gli scienziati hanno ormai a disposizione strumentazione molto più sofisticata di un tempo, che permette di ovviare a decenni di ricerca senza la possibilità di un’osservazione diretta dei cetacei. Grazie ai tag posti sulle balene, oltre a simili tecnologie, è ora possibile studiare in maniera molto più completa le abitudini di questi animali, seguendone gli spostamenti e svelandone finalmente il ruolo, così importante per la sopravvivenza dell’intero ecosistema. E, di conseguenza, del pianeta. Un tasto dolente rimane purtroppo quello della caccia: se il 31 marzo 2014 sembrava dover passare alla storia come la data in cui si era posta fine alla caccia di balene a lungo dichiarata “a fini scientifici” da parte del Giappone, a opera della Corte internazionale di giustizia dell’Aja, sembra che la situazione stia già degenerando. Durante la recente visita in Nuova Zelanda e Australia, infatti, pare che il primo ministro giapponese Shinzo Abe abbia dichiarato che la sentenza non può davvero limitare la caccia, se è perpetrata a fini di ricerca scientifica e non ha scopi prettamente commerciali. Ha aggiunto che questa decisione non danneggerà le relazioni bilaterali con i due paesi (i quali erano stati al tempo i promotori della sentenza poi emessa dall’Aja). Dal 2015 la pratica riprenderà senza probabilmente limitazioni, allo scopo di “avere dati utili sulla gestione delle risorse ricavate dai cetacei”.

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Isaac Kohane, Flickr

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".