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Gli aspetti sociali dell’epidemia: ebola tra ritualità e diffidenza

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ATTUALITÀ – L’ebola fa paura. Fanno paura i numeri in salita, costantemente aggiornati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che contava a ieri 1350 decessi. Fanno paura le frontiere che man mano si chiudono per cercare di contenere l’infezione nei quattro Paesi attualmente colpiti (Liberia, Guinea, Sierra Leone e Nigeria). Prima la Liberia, poi il confine meridionale della Guinea e infine Camerun e Kenya che hanno chiuso l’accesso ai propri territori alle persone in arrivo dalle zone più colpite. Fa paura la mancanza di una cura. Il farmaco sperimentale somministrato a due operatori sanitari americani qualche settimana fa sembra promettente e l’OMS, che inizialmente aveva escluso l’idea di utilizzare farmaci sperimentali in piena emergenza, ha aperto un tavolo di discussione per valutarne l’introduzione nei Paesi colpiti. Ma al momento una cura non c’è e chi si ammala di ebola muore nel 53% dei casi. Tutto questo fa paura a noi, che guardiamo la situazione da lontano e fa ancora più paura a chi tutto questo lo vive da vicino. Lo dimostra la recente incursione di un gruppo di persone armate in un centro di cura di Monrovia, capitale della Liberia, che hanno messo in fuga 17 persone ricoverate dopo il contagio (ritrovate qualche giorno dopo). Le testimonianze parlano di un gruppo di giovani che urlavano slogan come “l’ebola non esiste”, “l’ebola è un invenzione del governo”. Paura, quindi, e diffidenza che pervadono le popolazioni martoriate dal virus.

I risvolti socio-culturali di questa emergenza sanitaria sono tutt’altro che trascurabili. Gestire un’epidemia di tale portata e comunicare al meglio con la popolazione in luoghi con delle forti credenze e ritualità è un compito non facile. Come viene vissuta l’epidemia dalla popolazione locale? Quali sono le difficoltà incontrate dalle organizzazioni umanitarie impegnate in quei luoghi? Ne abbiamo parlato con Maria Cristina Manca, antropologa di Medici Senza Frontiere (MSF), da poco rientrata da Gueckedou, in Guinea. “C’è il terrore di questa malattia, in quanto si tratta della prima grande epidemia di ebola in Guinea. La popolazione ha cercato fin da subito un capro espiatorio, l’origine di tutto, in quanto non comprendeva la provenienza di questo male, e la diffidenza nei nostri confronti inizialmente era molto alta. Noi siamo arrivati quando è arrivata l’epidemia, ci dicevano, anche se in realtà siamo arrivati dopo, ma le spiegazioni razionali in quelle situazioni valgono poco. Tutte le persone coinvolte nella gestione dell’epidemia sono state colpevolizzate, noi di MSF, i più visibili, il governo e le altre organizzazioni umanitarie. Chiunque non facesse parte del villaggio diventava un capro espiatorio” ci racconta. “Nel momento in cui accogliamo una persona che ha contratto il virus la nostra equipe va nella sua abitazione per effettuare le procedure di disinfezione. Succede spesso che, il giorno dopo la venuta di questi individui dalle tute bianche, altri membri della famiglia si ammalino. E l’associazione causa-effetto è presto fatta, anche se in realtà si tratta di un contagio chiaramente precedente e che si manifesta dopo qualche giorno di incubazione. La situazione adesso sta migliorando e alcuni villaggi ci stanno aiutando moltissimo, creando dei comitati auto-gestiti che monitorano lo stato di salute degli abitanti in filo diretto con noi”.

Il terrore comunque rimane, insieme alla diffidenza. È presto per sapere se questo sia dovuto anche a superstizioni o credenze religiose, cosi come era successo per le prime grandi epidemie di AIDS, ci spiega Maria Cristina Manca, in quanto in piena emergenza sanitaria non è possibile condurre uno studio antropologico approfondito, ma solo dei rapidi studi di contesto. Quello che esiste sicuramente è una grande ritualità nei confronti della morte e dei defunti, ritualità che questa epidemia di ebola sta spazzando via. “ Secondo le credenze del posto i defunti possono tornare se non sono seguiti in modo appropriato nel fine vita e nella cerimonia funebre. Chi porta una persona cara nella nostra struttura sa che questo rituale di passaggio non potrà avvenire. Abbiamo cercato di ritualizzare per quanto possibile le fasi successive al decesso, permettendo ad esempio ai famigliari di dare denaro, vestiti o regali da seppellire con la persona cara. Ovviamente ci sono delle precise misure di sicurezza da seguire e siamo costretti a eliminare una parte consistente della ritualità funebre, come il dormire con il proprio caro, lavarlo o vestirlo e questo rappresenta un grosso problema”.

Chiunque entri in contatto con il virus, inoltre, vive una sorta di “stigmatizzazione”. Chi riesce a sopravvivere al contagio veniva visto, soprattutto nelle fasi iniziali dell’epidemia, come un “morto che tornava”. “Abbiamo cercato di ritualizzare anche questa fase. La persona guarita, dopo colloqui con medici e psicologi, viene riaccompagnata da noi in trionfo dalla famiglia e dalla autorità del villaggio. Ho percepito spesso la paura nei confronti di queste persone – ricorda la Manca – ma la si sta superando pian piano. Lo stigma esiste più nei confronti delle persone del posto che lavorano con noi, accusati di essere pagati per lavorare con chi si pensa sia il responsabile dell’infezione”.

È una realtà complessa, quella che emerge dalle parole di Maria Cristina Manca, una realtà nella quale il ruolo della comunicazione e della sensibilizzazione nei confronti della malattia appare fondamentale e che si può affontare solo unendo competenze diverse. “Si può costruire una struttura sanitaria eccellente ma senza una sensibilizzazione ad hoc nei confronti della popolazione rischia di restare vuota. Per questo Medici Senza Frontiere attua parallelamente il servizio di assistenza medica e quello di sensibilizzazione”, conclude Maria Cristina Manca. Al di là di degli aspetti medico-scientifici, quindi, non va dimenticato che stiamo parlando di una epidemia che coinvolge la sfera più profonda dei rapporti sociali e delle credenze culturali.

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Crediti immagine: Geraint Rowland, Flickr

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