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A Kabul il vero “leone” è forse un maiale

Un approfondimento sul legame che esiste tra zoo e guerre, tra conservazione e diplomazia

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APPROFONDIMENTO – Si metteva seduto nel punto più alto della sua misera gabbia. La fronte eretta e le zampe ben distese, è stato (e lo è tuttora) l’emblema del rifiuto dell’idiozia umana, della vittoria sulla cieca violenza di cui l’uomo spesso si macchia. Ma lui ha resistito. Pur essendo stato vittima di qualsiasi tipo di barbarie, è riuscito a morire di vecchiaia: la resistenza come vera denuncia, come unico mezzo per non abbassarsi alla miseria umana. Per questo Marjan, il leone dello zoo di Kabul, era tanto amato dai cittadini afghani. Forse in lui vedevano l’unico vero esempio di come andare avanti nonostante tutto, anche quando “andare avanti” significa passare da una guerra all’altra.

Dall’Europa all’Asia

Kabul, fine anni ‘70: Marjan arrivò in una città in cui il burqa era un’esotismo di qualche villaggio sperduto sulle montagne (e formalmente illegale), i capelli messi in piega si abbinavano rigorosamente alle gonne anche sopra il ginocchio, alle donne si garantiva l’istruzione obbligatoria, si ascoltavano i Beatles con qualche birra in mano e Kabul, Beirut e Teheran sfidavano Londra e Parigi in quanto a moda e cultura. Erano gli anni della Repubblica di stampo socialista: se rinunciavi ai tuoi diritti di libertà di pensiero, potevi davvero far finta di vivere all’occidentale. Marjan non poteva godere nemmeno di quelle libertà, infatti da una gabbia della DDR passò ad una gabbia sulla Via della Seta. Insomma, il tormento cambiò di poco. Probabilmente in quegli anni iniziò a salire nel punto più alto della squallida gabbia, e a guardare gli uomini per quel che erano: degni delle gesta più belle, capaci della violenza più pura.

Un attento osservatore, cieco

Dal suo punto di osservazione Marjan vide l’inizio della fine di un Paese. Un colpo di stato portò al potere un personaggio inviso all’Unione Sovietica, che decise di invadere l’Afghanistan. Dopo i sovietici, come è noto, arrivarono i fanatici religiosi, che, nel 1992, proclamarono la Repubblica Islamica d’Afghanistan. Le carestie divennero sempre più frequenti, e sempre più lunghe. Lo zoo si trasformò presto in una sorta di “supermarket” vivente di carne fresca. Gli elefanti, i cervi e gli uccelli durarono poco tempo dall’inizio della guerra civile. Fame, fanatismo religioso e un odio crescente trasformarono il Paese in un vero inferno, in cui regnava la pazzia. Un giorno un talebano decise di sfidare la regalità di Marjan, ridotto a pelle e ossa, calandosi nella sua gabbia. Inutile dire che in pochi secondi del talebano rimase qualche ciuffo di barba. Il fratello dell’idiota, in evidente delirio, si presentò il giorno dopo per vendicarsi: Marjan sembrava sul punto di perdere la sua battaglia contro la stupidità umana quando la granata lanciata dal talebano gli esplose a pochi metri. Perse entrambi gli occhi, i denti e la mobilità di una zampa. Il suo custode, però, pur avendo sette figli da sfamare, riuscì a salvarlo, nel mentre intorno le donne venivano lapidate in strada e la furia fanatica raggiungeva i suoi livelli più estremi. No, Marjan non cedette: sebbene ormai cieco ritornò a osservare la crudeltà degli uomini dal punto più alto della sua gabbia. Molti anni dopo questi fatti, nel 2002, è stato Marjan, riprendendosi tutta la libertà che l’uomo gli ha sempre negato, a decidere quando morire. Non di violenza, ma di vecchiaia, smettendo di mangiare. A lui gli inglesi (che provarono in tutti i modi a fargli trascorrere in serenità gli ultimi anni di vita) hanno dedicato un think tank sulla condizione degli animali durante le guerre, il Marjan Center for War and Non-Human Sphere del King’s College.


Cambia il protagonista ma non la storia

Marjan era un simbolo importante per l’Afghanistan: il vuoto che lasciava era innanzitutto politico. Erano gli anni subito dopo l’invasione, in cui si riponevano grandi speranze in quel Paese martoriato. I cinesi non si lasciarono sfuggire l’occasione di marketing; l’ambasciatore cinese, infatti, donò immediatamente un’altra coppia di leoni. I potenti, forse, erano cambiati, ma la follia dei fondamentalisti no. Anche Akon, il nuovo “re” dello zoo di Kabul, fu vittima delle attenzioni di un folle talebano che si proclamava “l’unico vero leone dell’Afghanistan”: anche lui si calò nella gabbia del leone. Quando poi si ritrovò in un ospedale di Emergency quasi interamente sbranato, ridimensionò le sue aspirazioni: dall’incontro con Akon si proclamò solamente “l’unico vero musulmano d’Afghanistan”. Successivamente, Akon fu salvato da un tumore grazie a un veterinario dell’esercito italiano, il tenente Reno Caforio.

Un pregiudizio che ti salva la vita

Paradossalmente, le vicende dei leoni di Kabul (quelli zoologicamente veri) si intrecciano a quella di un animale che nel pregiudizio comune è tutto tranne che simbolo di regalità, fierezza e coraggio: il maiale. Poco tempo prima che Marjan morisse, furono sempre i cinesi a regalare un maiale allo zoo negli ultimi anni del regime talebano. Considerato animale impuro, nessuno ebbe il coraggio di toccarlo, nemmeno quando la carestia e la guerra si facevano più dure. E così il maiale ha trascorso la sua esistenza nello zoo, forte della protezione dei pregiudizi contro di lui. Addirittura è diventato una delle maggiori attrazioni: è l’unico esemplare vivo della sua specie in tutto l’Afghanistan. Nonostante la notorietà, divenne anche un caso nazionale, e non per questioni religiose. Sebbene stia in un paese in cui bambini e adulti vivono in condizioni sanitarie pessime, la psicosi della “influenza suina” arrivò anche a Kabul. Il maiale fu quindi spostato in una gabbia particolare in compagnia di una povera capra deforme con cinque zampe e lì trascorse il resto della sua pacifica esistenza. Nonostante (o grazie) ai pregiudizi, chi è, dunque, il leone di Kabul?

@gia_destro

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Foto: Marjan e il suo custode. Crediti: Rawa

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