IN EVIDENZASPECIALI

Correndo verso la sesta estinzione di massa

Defaunazione antropocentrica, ovvero: quando a far scomparire specie e interi ecosistemi sono le attività umane. Cosa fare?

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SPECIALE AGOSTO – Non un enorme asteroide schiantatosi sul pianeta, né fenomeni ambientali catastrofici o la naturale trasformazione cui la Terra è andata incontro: a determinare quella che potrebbe essere la sesta estinzione di massa, stavolta, siamo stati noi.

Nonostante la biodiversità attuale del nostro pianeta sia la più elevata mai raggiunta, risultato di 3,5 miliardi di anni di evoluzione, secondo molti esperti si tratta di un punto di rottura. A partire dal 1500 si sono infatti estinte oltre 320 specie di vertebrati, e quelle che sopravvivono mostrano un declino medio del 25% per quanto riguarda l’abbondanza. La situazione è altrettanto tragica dal punto di vista degli invertebrati.

La definizione che ne dà Rodolfo Dirzo, professore di Biologia all’Università di Stanford, è quella di un’era di defaunazione antropocentrica. L’argomento è stato abbondantemente trattato su un paper pubblicato sulla rivista Science, che ultimi dati alla mano ha fatto il punto. Per fare due conti: tra il 16 e il 33% delle specie di vertebrati su tutto il pianeta sono minacciate o a rischio di estinzione, in particolare quelle che vengono annoverate entro la cosiddetta “megafauna”. Navigando il sito IUCN potete farvi un’idea della gravità della situazione. Animali come elefanti, rinoceronti e orsi polari, per motivazioni legate all’attività umana (che si tratti di bracconaggio, distruzione dell’habitat o cambiamento climatico), si trovano in quella precisa condizione di declino che la storia ci insegna precedere l’estinzione.

Megafauna e società

Si tratta di specie con progenie relativamente poco numerosa, le cui popolazioni crescono più lentamente rispetto alle altre: necessitano inoltre di habitat molto ampi, nei quali rischiano spesso (anche solo per le dimensioni che li rendono visibili) di diventare obiettivo dei cacciatori. Ma cosa succederebbe se da un habitat scomparisse la megafauna? Come reagirebbe l’ecosistema? Alcuni esperimenti condotti in Kenya, si legge su Science, hanno osservato alcuni territori nei quali il fenomeno era già in corso, per determinarne le conseguenze. Aumento dei cespugli, delle piante erbacee e della compattazione del suolo, oltre che la proliferazione incontrollata dei roditori e, di conseguenza, dei patogeni.

Il declino di alcune specie in particolare è legato a doppio filo non solamente con la sopravvivenza della rete trofica della quale fanno parte, e degli altri animali e piante con i quali condividono l’habitat, ma anche con numerosi aspetti sociali. Il progressivo calo di fauna selvatica causato dalle attività umane è la sorgente, non la conseguenza come siamo soliti pensare, di conflitti, criminalità organizzata, addirittura sfruttamento minorile. Ne parla un recente studio sempre pubblicato su Science, sottolineando come non stiamo unicamente danneggiando le specie animali ma distruggendo intere comunità.

Dove vengono a mancare le specie che le popolazioni locali cacciano o pescano per mangiare, per esempio, aumentano le ore che queste trascorrono cercando di procurarsi cibo. Ed è così che molte famiglie scelgono di vendere i propri figli, bambini che, per esempio, trascorrono dalle 18 alle 20 ore al giorno sui pescherecci, senza una vera paga. Parallelamente il bracconaggio è tutto fuorché una minaccia del passato, e spesso i proventi del mercato nero che su di esso si fonda finanziano le attività terroristiche dei più noti nomi della criminalità organizzata (alcuni tra tutti il Lord’s resistance army, al-Shabab e Boko Haram).

Invertebrati

Negli ultimi 35 anni la popolazione mondiale è raddoppiata, mentre il numero degli animali invertebrati, nello stesso periodo, è diminuito del 45%. Ragni, vermi, farfalle e altri insetti, il cui declino è dovuto, come per le specie più grandi, alla perdita dell’habitat e al cambiamento climatico. Se le conseguenze che riguardano anche noi potrebbero non risultare immediate, lo diventano pensando agli insetti impollinatori. Questi provvedono all’impollinazione del 75% delle coltivazioni di piante commestibili, coprendo circa il 10% del valore economico della produzione di cibo a livello mondiale.

Per non parlare del ruolo svolto dagli insetti nel ciclo dei nutrienti e nella decomposizione dei materiali organici, che garantisce la produttività dell’ecosistema. Solamente negli Stati Uniti, il valore stimato per il controllo delle specie infestanti da parte di quelle locali che le predano è stimato intorno ai 4,5 miliardi di dollari l’anno.

Soluzioni?

Secondo Dirzo e gli altri firmatari del paper, la situazione è a dir poco complessa. Porre immediato freno alla distruzione degli habitat e al sovra-sfruttamento aiuterebbe, ma si tratta di approcci che vanno pensati in maniera individuale per ogni regione e singola situazione. Aumentare la consapevolezza pubblica riguardo al fatto che corriamo incontro alla sesta estinzione di massa sul pianeta, certo, anche questo potrebbe fare la sua parte. Concentrandosi non solamente sulle grandi specie carismatiche e note, quelle insomma che causano l’”effetto Bambi”, ma su quelle più importanti per gli ecosistemi stessi.

“Tendiamo a pensare all’estinzione come alla perdita definitiva di specie sul pianeta, ed è certamente importante, ma esistono un sacco di ecosistemi critici il cui funzionamento dipende proprio dall’esistenza di queste specie: dobbiamo prestare estrema attenzione anche a questo”, conclude Dirzo. “Ironicamente abbiamo a lungo considerato la defaunazione come un fenomeno criptico, ma credo il tutto stia andando verso una situazione che criptica non è, perché le conseguenze che ne seguiranno sono sempre più evidenti. Sia ai danni del pianeta che del benessere degli esseri umani”. Che, guarda caso, sono correlati. Anche se tendiamo a dimenticarcene.

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Leandro Kibistz, Flickr

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".