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I Big Data della biodiversità a servizio delle aree protette

La rapidità con la quale perdiamo specie animali e vegetali è allarmante: come stabilire quali sono le aree naturali che hanno più bisogno di protezione?

Tree_of_life_by_HaeckelSPECIALE AGOSTO – Vi sono numerose specie di animali e piante che scompaiono dalla faccia della Terra per non ricomparire mai più. Secondo i dati riportati da ISPRA ammonterebbero a 50 specie ogni giorno, per un totale di 18.250 specie all’anno. Se i più scettici provano a obiettare che il fenomeno non è nuovo per il nostro pianeta, occorre considerare che la biodiversità – cioè la varietà delle specie – si riduce di un ritmo 100-1000 volte superiore rispetto a quello ritenuto “naturale”.

Un modo per fermare la progressiva perdita di specie viventi è l’intervento diretto, cioè la creazione di aree naturali protette il cui scopo principale è quello di preservare paesaggi, formazioni geologiche, flora, fauna e ambienti marini. Ma come fare per decidere quale pezzo di Terra è da salvare da una decadenza lenta ma inesorabile? Non basta contare il numero delle specie rimaste in un luogo: a volte una specie può essere più importante di un’altra perché è endemica, cioè presente solo in una determinata area geografica grazie alle particolari condizioni ambientali. Ecco allora un buon motivo per salvaguardare quella zona, in nome di quello che viene chiamato endemismo bio-geografico.

Se questo è quello che afferma il metodo classico, una risposta del tutto innovativa arriva dall’Università di Barkeley, dove un team di ricercatori guidati da Mishler è riuscita a integrare tra loro una grande quantità di dati, che potremmo chiamare i Big Data della biodiversità. Infatti sebbene gli studiosi raccolgano già da tempo dati riguardo alla distribuzione e alla diversità delle piante e degli animali, l’aspetto più complicato da affrontare è proprio il confronto delle diverse fonti estremamente ricche, per trarre  informazioni utili alla salvaguardia della natura.

Ma aldilà dell’aspetto tecnico, il merito di Mishler è quello di aver soppesato la rarità di una specie non solo in base all’endemismo geografico, ma anche con l’isolamento filogenetico. Per Mishler non vale solo il fatto di essere isolati in un luogo, ma anche di non avere parenti prossimi. Il modello matematico capace di integrare un così alto numero di informazioni e di variabili è stato chiamato CANAPE, Categorical Analysis of Neo- And Paleo-Endemism, e per spiegare con quale metodo opera i ricercatori si sono avvalsi di una pubblicazione uscita su Nature Communications nell’aprile di quest’anno.
L’Australia è il  territorio su cui i  ricercatori della Barkeley hanno deciso di validare il loro modello, perché nel 2011 era  il continente all’avanguardia per la digitalizzazione dei dati museali e per la georeferenziazione di informazioni in ambito ecologico.

Dove si colloca l’Europa nella corsa alla difesa della  biodiversità?

Il modello di Mishler, applicato in Australia e in California, ha già indicato quali sono le aree maggiormente “diverse” dalle altre e quindi da preservare. Per l’Australia sono importanti la foresta pluviale della parte sud-occidentale, la regione della Gascoyne e la Tasmania; in California i dati hanno evidenziato la Valle del Sacramento, la barriera corallina costiera e la Baia di San Francisco.

“Il lavoro introdotto da Mishler è di certo innovativo e complementare agli studi classici sulla biodiversità”, ha commentato Roberto Pizzolotto, ricercatore del Dipartimento di Biologia, Ecologia e Scienze della Terra dell’Università della Calabria.  “I metodi classici, cioè quelli basati sul rilevamento in campagna dell’endemismo geografico, sono ancora molto diffusi perché sono più intuitivi e diretti, in quanto è facile spiegare e giustificare la peculiarità di una specie con l’adattamento a un ambiente particolare. Ma tanto gioca anche il fatto che il metodo CANAPE abbia valenza statistica principalmente su territori ampi, come può essere il continente australiano”.

L’approccio basato sul geo-endemismo è già un punto di forza in più rispetto a quello basato sullo studio di una singola specie per individuare le aree più a rischio di estinzione. “La presenza di una specie endemica è legata a un certo tipo di ambiente e a una particolare storia bio-geografica, e proprio il verificarsi di queste condizioni particolari offre un potente strumento per giustificarne le peculiarità”, ha spiegato Pizzolotto. “Ma l’endemismo serve anche a comparare con lo stesso metro di misura una specie con le altre del luogo o addirittura con specie appartenenti a regni differenti, che però si sono trovate costrette ad affrontare evolutivamente le stesse difficoltà ambientali. In queste circostanze non si effettuano quindi valutazioni sulla singola specie, ma si fanno valutazioni di sintesi, che abbracciano un intero territorio da proteggere”.

L’Italia poi avrebbe già a disposizione molti dei dati di partenza che servirebbero per la modellizzazione del gruppo californiano. Infatti siamo stati i primi a creare un database di tutte le specie animali presenti sul territorio nazionale (derivazione di molti piccoli archivi, come ad esempio quello delle montagne dell’Italia meridionale), corredato da dati storici e localizzazioni geografiche. Queste ultime sono state organizzate in vere e proprie mappe, chiamate cronogeonemie,  che mostrano le localizzazioni delle diverse specie nel tempo e dove sono andate scomparendo.

“Probabilmente i numerosi studi filogeografici che già caratterizzano anche la ricerca italiana necessitano di un modello robusto, applicabile su scala nazionale, che li renda efficaci strumenti di valutazione”, ha concluso Pizzolotto.  Ora infatti non abbiamo solo il libro “L’origine delle specie” di Charles Darwin per ricostruire le diramazioni dell’albero della vita. Il confronto del genoma e dei dati molecolari ci vengono in aiuto per stabilire l’esatta distanza tra le specie che occupano una determinata area, indicando con precisione quanto lontano sia l’antenato che condividono. Abbiamo una miniera vasta di informazioni a cui attingere per soppesare il grado di diversità e ridisegnare i confini delle aree protette.

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Giulia Annovi
Mi occupo di scienza e innovazione, con un occhio speciale ai dati, al mondo della ricerca e all'uso dei social media in ambito accademico e sanitario. Sono interessata alla salute, all'ambiente e, nel mondo microscopico, alle proteine.